U. D. Manoscritto
Franca Brambilla Ageno
Lingua Pataffio (proverbi, modi di dire, ecc. - cc. 32-278)
ante 1962
1962
246 cc.
Le cc. 32-278 riportano appunti relativi al lessico usato nel Pataffio, probabilmente dal Sacchetti. Qui di seguito se ne dà una descrizione:
c. 32 – II, 40. E in dileguo spesso va: ‘spesso si dilegua’, ‘sparisce’.
c. 33 – II, 40. Frummiando: cfr. Iac., XXV, 48: «Le cocine mal frumicate», ‘i cibi mal preparati’ e il Vocabolario pisano di G. Malagoli, Firenze, 1939. Il senso sarà quello di ‘darsi da fare (per preparare)’ suggerito dal Tommaseo e Bellini?
c. 36 – I, 1. Squasimodeo: ricorre di frequente, com’è noto, nella frase «il più nuovo squasimodeo», ‘il più strano babbeo’, Dec., VIII, 5,8: «ché io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo che voi vedeste mai»; Trec., CXLV, 8: «dinanzi a uno judice che parea il più nuovo squasimodeo che si vedesse mai»; CXCII, 3: «uno lavoratore di lana un poco asgiato, il quale avea nome o era chiamato Capodoca, assai nuovo squasimodeo», CLIX, 125.
c. 37 – I,1. Introcque, ‘intanto’: è dato da Dante nel De vulgari eloq., I, XIII, 2, come esempio di plebeismo fiorentino, e da lui usato in Inf., XX, 130. Cfr. Parodi, lett., p. 261.
c. 38 – I, 1. A fusone, ‘in abbondanza’; dal franc. à foison.
c. 39 – I,2. Ne hai, ne hai: la frase è registrata, senza spiegazione, dal Salv., p. 221. È possibile che significhi: ‘hai quattrini (più che tu non voglia far credere)’.
c. 46 – I,2. Pilorci: secondo il DEI sarebbe una cosa sola con pilorcio, ‘ritagli di pelle usati come concime’ e proverrebbe da palorcio, ‘fune lunga e sottile per itrare a terra una rete’+pelo.
c. 49 – I, 3. Al can la cinghia: Il Tomm. e Bell. Dà una complicata e arbitraria spiegazione della frase com’era nella lezione vulgata (…la tigna). Restituita alla forma originaria, l’espressione non riesce chiara, poiché per intenedere ‘il guinzaglio secondo il cane’, o ‘le sferzate stanno bene’ o ‘toccano sempre al cane’, occorre dare a cinghia un senso che non risulta abbia mai avuto. Attribuirle poi il senso dell’altra «metter la sella all’asino», ‘far cosa che non va’ (le cinghie servono appunto a tener ferma la sella o il basto) sembra cervellotico.
c. 50 – I, 3. Mazzamarrone: l’origine della parola è ignota, ma il senso almeno approssimativo risulta da due passi del Sacchetti, Trec., LII, «Io mi metterò a rischio, e so alcuna orazione e alcuno incanto che è buono a ciò [ad allontanare una botta velenosa da una vigna]; e anche quel mio fante è uno mazzamarone che non se ne curerà»; CX […]: «…dice il gottoso a uno mazzamarone contadino…»: ‘grande, forte e grossolano’.
c. 51 – I, 4, difalta, ‘difetto’: è francesismo usato da Dante, Purg., XXVIII, 94 e 95; Par., IX, 52; dal Sacchetti, Libro, CXIII, 30: «…dal mezzo quasi mai non vien difalta». Cfr. Parodi, Lingua e Lett., p. 273.
c. 52 – I,4. Parecchi: non può trattarsi di voce del verbo parecchiare, che stia con difalta, perché nel manoscritto le due parole sono separate da un puntino. Penso che si tratterà del parecchio, parecchi ‘pari’, agg. E sost., usato da Dante, Purg., XV, 18, dal Boccaccio, Tes., XI, 18, 5-6: «…acciò ch’una pirra parecchio, alla statua d’Ofelte possan fare», ecc.
c. 53 – I, 4. Ad ana ad ana: che si tratti proprio, come vogliono il Salvini e il Tomm. e Bell., di ana, termine proprio delle ricette meridionali? Sarebbe strano, in tal caso che venisse usato con preposizione. Ma il Pucci nel Centil. usa due volte un ana, che il DEI fa derivare dall’arabo e che ha il senso di ‘fatica, travaglio, affanno’; XIV, 44: «Ma è passò con gran fatica ed ana il fiume di Voltone e Taliverno»; VI, 88: «Subitamente si fermò nel core di metter suo valor, fatica ed ana contra gli amici del sovran pastore»; un a modale davanti ad un sostantivo di tale significato, è perfettamente comprensibile.
c. 54 – I, 5. A cafisso: poiché cafisso, dall’arabo, era una misura veneziana di capacità per grano, olio, ecc., uguale a uno staio e tre quarti o a sei libbre, l’espressione avverbiale a c. avrà lo stesso senso che a staia, a bigonce (Morg, XVIII, 155, 3), a misura di carbone (Salv., p. 14).
c. 55 – I, 5. A busso: il significato di busso, in tutte le sue accezioni, è quello di ‘rumore’. Libro, XCVII, 33-5: «Tocca, picchia, ritocca, mentre ch’l busso cresce, ed una serpe n’esce»; Trec., XLVIII, […]: «e colselo sì di netto che’l corpo morto cadde in terra dello letto, tanto grave e con sì gran busso…»; XLIX, […]: «…e con questo busso furioso la famiglia condusse la brigata in palagio».
c. 56 – I, 6. Petronciana vale ‘melanzana’. Nell’uso figurato («Tutto cotesto è della petronciana»), probabilmente ‘cosa senza senso’.
c. 57 – I, 5. Aramata: la ramata è una paletta di vinchi usata per ammazzar gli uccelli nelle caccia a frugnuolo, o anche con la pania. Morg., V, 54, 1-2: «Disse Rinaldo: -Vedes’tu mai tordo ch’avessi, com’ebb’io, della ramata?»; Cir. Calv., III, III, 1-4: «Vedes’tu mai villan che sotto frasca ha percosso in sul capo la ghinadaia con la ramata, e in un tratto giù casca, O frusone impanicato all’uccellaia?»; IV, 174, 7-8: «…cadde balordo, come per la ramata cade il tordo». L’espressione avverbiale vale quindi: ‘con un colpo (sul capo) come quello che si dà con la ramata’.
c. 61 – I, 9. Sergozzone: ‘colpo sul gozzo’. Dec., VIII, 2, 43: «Io boto a Cristo che mi vien voglia di darti un gran sergozzone»; Libro, CLIX, 48 (v. punzone, I, 8); Morg., VII, 54, 1-3: «… punte, rovesci, tondi, stramazzoni, mandiritti, traverse con fendenti, certi tramazzi, detti sergozzoni…»; XVIII, 174, 2: «Ch’io non ti dessi qualche sergozzone»; XXVIII, 9, 6: «Chi gli dà certi sergozzoni strani»; Cir. Calv., IV, 407, 4-5: «… col sorbo crivella ispesso al ceppo qualche sergozzone»; VI, 53, 3-4: «…per non aver qualcun de’ sergozzoni che’l Pover dava…».
c. 62 – I, 9. Punzone, ‘colpo dato con la punta delle nocche, essendo la mano stretta a pugno’, ‘pugno’. Dec., VII, 8, 32: «… ricordandosi che egli l’aveva dati forse mille punzoni per lo viso»; IX, 8, 23: «… fattoglisi incontro, gli diè nel viso un gran punzone»; Libro, CLIX, 45-8: «… punzoni, ceffoni, rugioloni, sergozzoni»; CLXXXVII, 7: «E non andare al ponte a dar punzone»; Trec., CLXVIII, […]: «Allora il maestro dà… uno grandissimo punzone a costui»; Morg., I, 64, 2: «Gli dette in su la testa un gran punzone»; II, 39, 6: «E Cerbero ammazzar con un punzone»; XVIII, 32, 6: «E da lor si difende co’punzoni»; 137, 6: «Colui che uccise in qua con un punzone»; XXII, 63, 3-4: «Un tratto gli menò sì gran punzone, che il guanto tutto in man s’ha sgretolato».
c. 63 – I, 10. Bindo mio, no: la frequenza del nome Bindo (‘Ildebrando’) a Firenze era proverbiale, cfr. Parad. XXIX, 103. Può trattarsi quindi nel Pataffio di un modo di dire, usato per negare, o contraddire, o rifiutare, quasi: ‘no, caro mio’.
c. 65 – I, 10. Zambracca: ‘donna di cattivi costumi’. Secondo il Prati, da zambra ‘cesso’, ‘fogna’, e vi può avere influito baldracca da Baldacco, un luogo in Firenze con osteria di quel nome. Corbaccio, p. 231: «…perire dietro alle fanti e alle zambracche e alle cattive femmina»; Libro, CLIX, 332, come nomignolo. L’espressione che l’è una z. probabilmente non va messa in relazione con ciò che precede, perché ne è separata da un punto, e significherà: ‘è proprio una puttana’.
c. 67 – I, 11. Muciocheto: indubbiamente composto imperativale, di un tipo non frequentissimo (verbo + espressione avverbiale), da mucciare ‘fuggire’. Iacopone, XXV, 27-30: «Frate, or pensa la sconfitta, che non aspetta el pate el figlio E si piglia la via ritta da mucciar da quello ‘mpiglio»; XXXIII, 144-5: «Venitel a pigliare, ché non ne po’ mucciare», e passim; Inf., XXIV, 127; Morg., XIX, 147, 5: «Non domandar se le risa gli smuccia»; XXI, 72, 3-4: «Rinaldo trasse, e la spada gli smuccia al collo tal che gli cava la stizza»; Cir. Calv., III, 63, 6: «… che, se la spada di man non gli smuccia…»; IV, 120, 6: «Se il brando non mi smuccia o none inciampo».
c. 71 – I, 14. Confrediglia: ‘combriccola’. È attestato solo nel Pataffio. Può darsi che derivi dal francesismo confrerì, m. pl., ‘confratelli’, con –iglia (di gozzoviglia? O di famiglia?). Pensare a uno spagnolismo, come suggerisce il DEI, sembra anacronistico.
[Effettuando una ricerca nella Lessicografia, troviamo tale termine nella seconda, nella terza e nella quarta edizione del Vocabolario degli Accademici, col solo esempio, appunto, del Pataffio. Il Battaglia non riporta tale lemma.]
c. 72 – I, 14. Garabullando: ‘gingillando’, etimo incerto. Ercol., p. 56: «… andare qua e là senza sapere dove andarsi, come fanno gli scioperati e a chi avanza tempo, il che si dice ancora andarsi garabullando e chicchirillando».
c. 73 – I, 15. Pisciata l’ha: deve aver press’a poco il senso di filarla, ‘riuscire’. Libro, CLIX, 311-2: «E ben l’abian pisciata, e ben l’abian filata!». Il significato opposto è proprio di frasi come pisciar nel vaglio. Cfr. pure pisciare in sette neve.
c. 74 – I, 13. Non fo eto: un altro esempio è nella frottola La lingua nova, 32: «non fa eto»; ma il senso dell’espressione rimane impenetrabile.
c. 75 – I, 16. Dimergolando: si tratterebbe di un verbo formato dal sost. Mergae, -arum, che indicava il forcone con cui si facevano i covoni. Quindi «ponta nel legno e va dimergolando» andrebbe inteso nel senso di ‘fa forza sul legno (in cui è conficcato un chiodo da cavare) e agito il chiodo per cavarlo [Fanf., Tomm. e Bell.]
c. 76 – I, 17. E’ nol farebbe Nacchi: il Salv., p. 11, registra questa espressione, commentando: «… s’intende per discrezione che dovette esser goffo d’oro in oro».
c. 78 – I, 19. Egli ha cotte le fave, il lavaceci: l’ultima parola è un composto imperativale di uso abbastanza frequente e significa ‘scimunito’. Dec., VII, 1,33: «…non meno sofficiente lavaceci che fosse Gianni Lotteringhi»; VIII, 9,52; «Bruno, udendo costui e parendogli, sì come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci…»; Libro, CLIX, 173 (deformato in lavaceci, probabilmente per dispregio); Trec., LXXII, 3: «Questo Vescovo lavaceci…». Cuocer le fave deve esser metafora analoga: ‘fare una scempiaggine’.
c. 83 – I, 22. Millanta: il verbo è ancora dell’uso, ed è formato sul numero immaginario millanta, Dec., VI, 10, 22; VIII, 3, 15; Libro, CXIXa, 10: «Ed impegnato egli hanno i lor millanti». Ha già esempi nel Pucci, Centil., XIX, 96: «Ed arsevi, se’l libro non millanta, Messer Neri…»; LXXXVII, 12: «E venti presi, se’l dir non millanta».
c. 87 – I, 24. Allichisato: voce di significato non chiaro. Bocc., Comm. Inf. V: «…gran parte del tempo spendendo appo il barbiere in farsi pettinare la barba… ed in ispecchiarsi, azzimarsi, allichisarsi, scrinarsi i capelli» […].
c. 88 – I, 25 – Lasciamo andar giù l’acqua per lo chino: è frase proverbiale registrata dal Salviati, p. 187: «Lasciar ir l’acqua alla china»; usata dal Machiavelli, Clizia, III, 2: «Come la credesse questo, mossa dalla coscienza, lascerebbe ire l’acqua alla china», ecc. (v. Tomm. e Bell., s. acqua, paragr. 151), e non del tutto caduta dall’uso.
c. 90 – I, 27. Al bacchio: ‘a vanvera’, deverbale di bacchiare ‘abbacchiare’ e fig. ‘buttare via’. La locuzione avverbiale è presente nel nomignolo Fallalbacchio (composto imperativale), su cui cfr. V. Rossi, Scritti di critica letteraria, Firenze, Sansoni, 1930, II, p. 367; Morg., XXIV, 59, 2.
c. 91 – I, 27. A micca: micca, ‘pappa’, ‘minestra’, vivo ancora nel lucchese, compare nel Morg., III, 51, 8. L’espressione avverbiale deve avere senso simile all’altra a macco: ‘in abbondanza’.
c. 96 – I, 29. Incipriginito: tanto nel senso corrente di ‘diventato maligno’, con riferimento a tumore, piaga, ecc., quanto in quello figurato in cui presumibilmente è usato qui, di ‘incattivito’, ‘inasprito’, può derivare da ciprigno, ‘aspro’, ‘inacetito’, detto di vino cattivo con riferimento al vino di Cipro che è asprigno. Burchiello, I, 47: «Sciloppo mi par ber, ma non di vigna. Chi ne beve non ghigna, ch’egli è ciprigno e cerboneca fina».
c. 97 – I, 33-4. Io non ho fior né punto né calia, Minuzzol né scomuzzolo: Ercol., p. 81: «Quando i maestri voglion significare che i fanciulli non se le son sapute e non ne hanno detto istraccio, usano queste voci: …calìa, …punto, …pelo, …scomuzzolo, …fiore». Per fiore, Purg., III, 135; calìa (da cadìa ‘caduta’ + calare, Prati) significa ‘minutissime particelle che si staccano dall’oro e dall’argento mentre vengon lavorati’, fig. ‘cosa da poco’ )Libro, 300, 7-8: «E nui serem serviti, che non siàn calìa»), ‘alcunché’. Minuzzolo e scomuzzolo (il primo da minuzzo, denominale di minutiare, REW, 5598, il secondo affine a gomitolo da glŏmum, ghiomo, REW, 3801) si trovano insieme anche nella frottola La lingua nuova, 255-6.
c. 103 – I, 37. Ispalancato egli è: nessun dubbio sul significato proprio del verbo spalancare (Morg., I, 65, 8: «…e spalancan le porte») che qui potrebbe essere registrato come neologismo, dato che si tratta, a mia conoscenza, dell’esempio più antico che esista; molti dubbi, invece, sulla possibilità, in questo punto, di un uso traslato, e sul suo valore.
c. 104 – I, 37. Di palo in passo: ha significato traslato, simile a quello dell’altra espressione: di palo in frasca; ma, come stare al passone (Iacop., LV, 86), attenersi al palo (Libro, CXXXVIII, 14), ficcare il palo (Gentil., III, 72), allude al palo a cui si legan le bestie, e quindi, in senso proprio, accenna al lasciare il pascolo per transumare. Libro, CLIX, 66: «…Andrà di palo in passo». Cfr. LN [Frottola della Lingua Nova, XV, 1954, p. 97].
c. 111 – I, 44. Più vago… che –lla scimmia de’ granchi: frase proverbiale registrata dal Salviati, p. 328: «Vago come la scim[i]a de’ granchi». Probabilmente ‘per nulla desideroso’.
c. 113 – I, 45. Diluviare: ‘mangiare voracemente e gran quantità di cibo’; ancora dell’uso. Morg., III, 49, 2-3: «…Però che diluviava a meraviglia e cadegli la broda giù pel petto»; XVIII, 163, 1-3: «soggiugnea – Un uom più bello e di tale statura E che tanto diluvi e tanto bea?». Anche ‘bere senza modo’: «Morgante, tu non be’, anzi tracanni, Anzi diluvi…».
c. 137 – I, 61. Raffazzonarsi: ha in origine il senso di ‘adornarsi’, ‘farsi bello’. Pungilingua, c. 110 v: «Quelle che s’adornano e raffazzonarsi e fanno balli e canti per piacere agli uomini…»; Cecchi, Figliuol prodigo, I, 1: «E poi, a dire il vero, e’ non mi piace che tu stia tanto a raffazzonarti, a farti bella».
c. 140 – I, 62. Zugo: Cecchi, Prov. 26: «Sono i zughi una sorta di frittelle avvolte in tondo sur un fuscello e cotte coll’olio nella padella». Fig. ‘scioccone’, Cecchi, Prov., 26: «Quando si dice a uno: Tu se’ uno zugo, si vuol dire che sia uno di quelli. E si usa dire di certi, che sono piacevoli e buon compagni, ma anzi che no semplici – Egli è il più dolce zugo del mondo». Franco, Son., LII: «Ch’io so, zugolin mio, quanto tu schizzi».
c. 143 – I, 64. Brollo, brullo: qualunque ne sia l’etimo, le due forme appaiono varianti di una stessa voce. Libro, CLIX, 365; Burchiello, p. 91: «Tuffandolo in un fonte nudo e brullo»; Franco, Son., XXXIII, 3: «E gli occhi brulli gridan…»; Pulci, Son., XCIX, 9: «…povera e brulla».
c. 152 – I, 68. S’agravò screzio a gara: ‘uno screzio si aggravò a contesa’? Screzio è già in Iacopone, LXXXIV, 28; nel Dec., VIII, 2, 46: «la Belcolore, rimasa scornata, venne in iscrezio col sere»; e anche gara è documentata fin dal Duecento: deve perciò trattarsi di serie verbale, non di parole rare.
c. 165 – I, 78. Non piaccia a Dio che’l buon anno ti vegna: è un modo di augurare il malanno.
c. 166 – I, 79-80. Cotesto non farebbe Cimabue che dipinse nell’acqua il peto grosso: il modo è registrato dal Salviati […]. È evidente il significato di ‘esser cosa impossibile a farsi’.
c. 170 – I, 85. Ciabattiere: ovviamente, non può valer ‘ciabattino’ come spiega il Tomm. e Bell. Probabilmente è in relazione con ciabatte ‘cinfrusaglie’, ‘ciarpe’, cfr. Morg., XVIII, 180, 5: «Guarda costui quante ciabatte ha quie»; dovrebbe quindi significare ‘dappoco’, ‘persona senza alcun valore’.
c. 172 – I, 87. Tregenda: ‘riunione di spiriti infernali’. Morg., XVIII, 117, 1-2: «ed Apollin debbe essere il farnetico, E Trivigante forse la tregenda». L’espressione va in tregenda equivale quindi a ‘va’ a tutti i diavoli?
c. 200 – I, 105. Facciamo a bella bargia e bel grillone: il Tomm. e Bell. interpreta la prima espressione come nome di un giuoco fanciullesco, la seconda come equivalente di ‘fare a gettar via tempo’; ma si tratta di interpretazioni di fantasia non basate su altri dati che il passo del Pataffio.
c. 201 – I, 107. Zoccoli in brodetto e gelatin calzari: difficile dire se si tratti della medesima espressione che cita il Varchi, Ercol., p. 70: «…e quello che i Latini volevano significare, quando sopragiugneva uno del quale si parlava non bene, onde veniva a interrompere il loro ragionamento e fargli chetare, cioè Lupus est in fabula, si dice dal volgo più brevemente zoccoli». L’espressione zoccoli in brodo è registrata dal Salviati a p. 335. L’altra, gelatin calzari, è certamente creazione sissemantica; sembra che gelatin sia aggettivo.
c. 204 – I, 111. (i)ngoffi: ‘colpi’, ‘botte’. Pucci, Merc. Vecchio, 93: «E ricevere e dar di molti ingoffi»; Morg., XXVI, 77, 8: «Dando e togliendo di maturi ingoffi».
c. 208 – II, 12. Ghiotto: ha anticamente il senso di ‘ribaldo’, ‘furfante’, Morg., I, 37,6; III, 36, 4; 66,6; IV, 29, 1 e 8, ecc.
c. 215 – II, 16. Tromberta: compare come nomignolo in Libro, CLIX, 336. Nel Cir. Calv., VI, 355, 1, ha certo il senso di ‘puttana’. Cfr. L. N., XVII, 1957, pp. 77-8.
c. 216 – II, 16. Mal gatto: ‘uomo astuto e malvagio’, Morg., XXVI, 95, 7: «E disse: Gano è un malvagio gatto». Non del tutto caduto dall’uso.
c. 220 – II, 2. Pilottami dentro: Morg., XVIII, 124, 1-3: «S’io ti dicessi in che modo io pillotto, O tu vedessi com’io fo col braccio, Tu mi diresti certo ch’io sia ghiotto». Pillottare vale ‘gocciolare sopra l’arrosto lardone o simile materia strutta bollente’; qui verisimilmente: ‘ungere’, ‘adulare’, ‘compiacere’.
c. 221 – Egli è sbandito, il becco: che sbandito sia qui usato in senso metaforico, non par dubbio: ‘stordito’, ‘frastornato’? Cfr. l’odierno sbandato. Sforzato riuscirebbe un confronto con un’espressione del Simintendi citata dalla Crusca, sbandito della mente. Becco, come insulto, è già nel Morg., XIV, 9, 4: «Ruffian, briccone e sacrilego e becco»; XVIII, 101, 7: «becco con ribaldo».
c. 223 – II, 3. I’ non traligno: Morg., XVIII, 117, 7-8: «Vedrai che la mia schiatta non traligna E ch’io non son terren da porvi vigna». Senso ironico.
c. 231 – II, 8. Non ne farei un tomo in sulla paglia: Morg., XXII, 21, 5-6: «Di ciò che contro a me tu dica ora, Io non te ne farei sull’erba un tomo»; Ercol., p. 83: «Diciamo ancora, quando ci vogliamo mostrare non curanti di che che sia: Io non ne farei un tombolo in su l’erba». Registrato dal Salv., p. 215.
c. 235 – II, 11. Or va di notte e non menare il cane: ha l’aria di espressione ironica, poggiata su un proverbio: Chi va di notte, meni il cane, o qualcosa di simile. Vedi nella Raccolta di proverbi toscani, pp. 140-1, le numerose forme proverbiali che prende il consiglio di non andar fuori di notte.
c. 236 – II, 14. Ciurmati: per ciurmare in senso proprio: Trec., CCXXIX, […]: «…dicendo che una gran serpe, apparita nella sua camera, n’era stata cagione… e che’l maestro Pistoia non se ne curava, dicendo che era ciurmato». Per il senso figurato: Libro, CXLI, 37-42: «Veniste là onde tal mossa nacque, Per disfar di Liguria la gran serpe. Ma come fiera gittò veleno ed anodò la coda; E perché niun di voi era ciurmato, Partiste da mercato»; Morg., XXII, 26, 6-8: «Che pensi tu mostrarmi la mandragola? Io ciurmerei di più, Gan, con un sermento, che tu con le tue spese: or sia contento»; XXIV, 42, 5: «E’ m’incresce tu ciurmi Carlo Mano»; XXV, 40, 6: «Guarda se potea poi ciurmare in panca»; Cir. Calv., IV, 76: «E seppe sì ciurmare e porre orpello…». Ma il senso è qui più probabilmente quello del Dec., VIII, 6, 13: «…meniallo alla taverna…: egli si ciurmerà…». Quindi: ‘ubriàcati completamente’ (iron.).
c. 270 – II, 37. La favola dell’uccellino: il Salv., p. 179, registra la frase, spiegando: ‘sempre una medesima cosa’; Ercol., p. 50: «Quando alcuno in alcuna quistione dubita sempre, e sempre, o da beffe o da vero, ripiglia le medesime cose e della medesima cosa domanda, che mai non se ne può venire né a capo né a conclusione, questo si dimanda in Firenze la canzone o volete la favola dell’uccellino».
G. Malagoli
Tommaseo
Bellini
Dante
Parodi
Salviati
Sacchetti
Boccaccio
Salvini
Pucci
Battaglia
Gianni Lotteringhi
Machiavelli
V. Rossi
Burchiello
Iacopone
Cecchi
Franco
Pulci
Firenze
Cipro
Le carte sono numerate a lapis da 32 a 278.
Caterina Canneti
Elisabetta Benucci