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Scheda di archivio


Collocazione


Livello di descrizione

U. D. Manoscritto

Autore

Franca Brambilla Ageno

Titolo (incipit)

Appunti, lezioni, Giuseppe De Robertis su "A Silvia" (cc. 221-228)

Data Iniziale

ante 1968

Data Finale

1968

Consistenza

8 cc.

Contenuto

Si descrivono qui di seguito le carte 221-228, riguardanti una lezione di Franca Ageno a proposito di un analisi di Giuseppe De Robertis sul componimento leopardiano “A Silvia”:

"Come saggio della critica di De Robertis si può leggere l’esame che egli fa dell’autografo del canto leopardiano “A Silvia”.
«Che l’autografo di “A Silvia” non rappresenta la vera prima stesura, lo dimostrerebbe un fatto: non tanto la scrittura calmissima e, in certe strofe, o parti di strofe, nessuna correzione (uno stato di grazia, si dirà: ma che durerebbe oltre l’umano), quanto la notazione in margine di antiche varianti che si direbbero trascritte per memoria. Non appartengono più al testo, di cui occupano i margini (e in certi canti, come nella “Quiete”, come nel “Sabato”, saranno chiuse tra parentesi, nel verso stesso); appartennero ad altro testo, e sono, ora, storia raggelata, che non è dato cogliere in atto, con i particolari segni del tempo e dei tempi. Se ne escludono quelle riguardanti la prima e l’ultima strofa ai vv. 4-5 e 63, oltre l’aggiunta dei vv. 18-19 e 36, e poche correzioni in punta di penna sulla riga qua e là (ai vv. 6, 16, 20, 21, 23), queste varianti sono, dunque, l’indubbia testimonianza d’un altro testo almeno, e non già la figura attiva e commossa di correzioni apportate al testo che abbiamo sott’occhio. A quei punti, infatti, esso risulta intatto; ed è rimasto, nei margini, tutto un lavoro che quell’ultima copia s’era lasciato addietro, aveva superato già: indice di stesure diverse, lì allineate e come confuse dalla eguale scrittura, sì da riuscir difficile studiarne i passaggi. E non si penserà, per concludere, come uno dei possibili, che il Leopardi prima toccasse la perfezione, poi arretrasse nell’informe».
Il primo esempio di queste varianti documentarie è ai versi 28-31:
Che pensieri soavi, / che speranze, che cori, o Silvia mia! / Quale allor ci apparia / la vita umana e il fato!
«È l’attacco della seconda parte del canto, che è tutta un’elegia, un compianto; mentre la prima parte è evocativa e lirica». “Quale qual” delle varianti non vale il potente e solo “Quale” del testo; se mai si stempera in enfasi. L’altro tentativo (“Qual ci appariva allora”) è un verso che corre, e perde per non essere per nulla passato; “allora” in fondo al verso non è in rilievo. Il principio nella quinta strofa nell’autografo è:
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, / Da chiuso morbo consumata e vinta, / Perivi, o tenerella! (40-42)
(Si sa che “consumata” è la lezione della stampa di Firenze, Piatti, 1831, mentre la lezione definitiva nell’edizione napoletana dello Starita del 1835, è “combattuta”, molto probabilmente suggerita dal Petrarca XXVI 2 “nave da l’onde combattuta e vinta”). Il primo verso (40) suonava precedentemente:
Tu pria che i poggi scolorisse autunno
Oppure:
Tu dopo il trapassar [l’aggirar] di poche lune.
L’idea del paesaggio autunnale distrae l’occhio; e quelle “poche lune” sono prolungate da “trapassar” o “aggirar”: lungaggini e frasi vecchiotte. Più indietro, nei versi 16-17:
Io gli studi leggiadri / Talor lasciando e le sudate carte
“gli studi leggiadri” erano stati precedentemente “gli studi miei lunghi” e poi “gli studi miei dolci”, e le carte erano state “dilette carte”. Ai vv. 32-34:
Quando sovviemmi di cotanta speme, / un affetto mi preme / Acerbo e sconsolato.
“Quando” è preceduto da “Qualor”, che dà luogo a una “minuta scansione giambica”, mentre il ritmo lento di “Quando sovviemmi” rende “il senso perentorio di una fatalità”; “Un affetto” è preceduto da “Sempre un dolor” e poi da “Un cordoglio”.
O natura, o natura, / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor? (36-38)
Dice il De Robertis che “rendi” «col suo latino la vince su “serbi”, così preciso, così rigido, come una scadenza». Al v. 41 “chiuso morbo” è preceduto da “occulto morbo”: “chiuso”, secondo il De Robertis, significa ‘occulto’ e qualcosa di più, come un nemico implacabile. Ai vv. 44-46
Non ti molceva il core / La dolce lode or delle negre chiome, / Or degli sguardi innamorati e schivi,
«la “dolce lode” acquista da quel “molceva”, ma anche dà…; e per effetto di molceva, appunto, “dolce” par cerchi dentro, come non facevano prima “sonava in”, “scendeva al” (l’una variante, che suona un po’ e poco significa, l’altra che nota il fatto e non esprime). Ci sono poi le “chiome brune”, che neppure da lontano attingono la funerea bellezza delle “negre chiome”… E c’è, infine, “verecondi” dato a “sguardi”, prima che il Leopardi correggesse in “innamorati”, che, a differenza dell’altro aggettivo, aggiunge a “schivi”». All’inizio della sesta e ultima strofa:
Anco peria fra poco / La speranza mia dolce: a gli anni miei / Anco negaro i fatti / La giovanezza. Ahi come, / come passata sei…
Il Leopardi dà delle varianti che permettono di ricostruire:
Anco peria fra breve (ben tosto) / La speranza mia vaga: a gli anni miei / Anco negar la giovanezza i fati. / Come passata sei…
Oppure:
Così perìa fra poco / la speranza mia vaga: a gli anni miei / negar così la giovinezza i fati. / Come passata sei
«Sostituzione necessaria, per un guadagno di ritmo e di suono, per una smorzatura d’eloquenza,» dice il De Robertis, «mi pare quella che dei vv. 3-4 (“Anco negaro i fati / la giovanezza”), contrapposto al correntissimo “Ancor negar la giovanezza i fati”; e aggiunto piena di pathos quell’”Ahi come”, subito ripreso dal “come” seguente, che dice strazio. E “anco” invece di “così” ricongiunge meglio e salda la strofa con quella precedente, facendo di due una sola sorte». Al v. 55, «”sfortunata” non riusciva a creare quel supporto d’infelicità e di compianto, quell’unificazione che fulminerà la parola “lagrimata” (“mia lagrimata speme”). E “sì spesso” non s’arriva a comprendere, quasi, come fosse venuto in mente a un Leopardi, che sul valore d’infinito di certe voci e espressioni aveva scritto e pensato lungamente nello Zibaldone (non si trattava, qui, di notare una frequenza, come con “sì spesso”, ma un’idea di vago e indeterminato, tanto più efficace: “Onde cotanto ragionammo insieme”); e in proposito citava Petrarca: “Te solo aspetto, e quel che tanto amasti…”». Non resta che un ultimo esempio:
Questa la sorte dell’umane genti? / all’apparir del vero… (59-60)
«Nelle varianti, nulla che valga: “umana vita? Ne la stagion fiorita”… Ma “umane genti” non è già un astratto, è una figura (e figura dell’umanità intera); e “Ne la stagion fiorita”, con l’aggravante della rima baciata, col suono consuetamente arcadico, consumato fino all’impossibile dallo stesso Leopardi perde al confronto di quel senso finale di caduta, annunziato col verso seguente, e che è immagine potenziata all’estremo del dolore leopardiano». Un secondo ordine di varianti, il De Robertis le chiama “vive in sommo grado, frenetiche”. Il primo esempio è nei primissimi versi:
Silvia, sovvienti ancora / Quel tempo de la tua vita mortale, / Quando beltà splendeva / Ne la fronte e nel sen tuo verginale, / E ne gli sguardi incerti e fuggitivi / E tu lieta e pudica…
In margine: “Nel volto verginale E negli occhi tuoi molli e fuggitivi, dolci, vaghi”: varianti, appunti per nuove soluzioni. Per prima cosa il Leopardi toglie via quel “sen”, anche se “verginale” (sensuale lassezza), e accorcia l’endecasillabo in settenario (“Nel volto verginale”). Poi, nel verso seguente, “sguardi” diventa “occhi”, che individua di più, e “incerti” è respinto da “molli”, “dolci”, “vaghi”: e la parola più vicina alla correzione definitiva è, forse, “vaghi”, parola ben leopardiana. Di lì il lampo: “ridenti”. E “ridenti e fuggitivi” fuga il verso precedente, quel settenario in cui prima s’era accorciato l’endecasillabo, pure al confronto di quegli occhi, poco significante. “Pudica” dell’ultimo verso non è che un’altra figura d’”incerti”; «E Silvia, sguardi incerti, pudica, è, con un’espressione manzoniana (tolta di bocca a Perpetua, però) una madonnina infilzata». Ora quegli occhi ridono, che è proprio della giovinezza, ridono nobilissimi (non toccano né sono toccati dalle cose circostanti), occhi sognanti. Qualcosa di quel riso dura ancora al verso seguente, in “lieta”; ma un’ombra lo farà più umano. Ecco dunque “pensosa” [Ma “lieta e pensosa” viene dal Tasso, madrigale “Incontra Amor”: “Incontra Amor già crebbe / questa nobil vittoria in umil cella; / lieta e pensosa vinse / pensier vani ed affetti / e desideri e diletti…”]. «il Leopardi, ora, per un ultimo accordo, intona meglio quel verbo “splendeva” che assorbe pigramente un poco di luce (e anche un poco di suono), e muta “splendeva” in “splendea” (Un nulla…, ma le perfezioni son fatte perfino di questo nulla, o contenutisti contenti, antistilisti!)». Nella terza strofa due versi furono aggiunti e scritti in margine. Al Leopardi capitò spesso di togliere, per sfoltire (l’operazione più fruttuosa, sempre, del correggere); ma qualche volta anche d’aggiungere, come qui:
Io, gli studi leggiadri / Talor lasciando e le sudate carte / D’in su i veroni…
Pareva, infatti, che mancasse qualcosa, a esaltare quella leggiadria, il lavoro di quelle carte… Fu il primo movente dell’aggiunta. Ma ne risultò più bellezza, per mutar di tono, all’effetto di quella voce… Inserì dunque, tra il v. 17 e il v. 20:
Ove il tempo mio primo, / E di me si spendea la miglior parte.
Nella quarta facciata dell’autografo son le prove di questi due versi: “Ov’io di me spendea, Ov’io ponea di me la miglior parte”. “Ove de gli anni primi, acerbi, verdi trapassando, dispensando i’ venia la miglior parte, l’età più verde”. “E degli anni io spendea la miglior parte, l’età fiorita”. “Ove il fior delle forze…”. Quattro righe fitte, uguali, che dimostrano al modo calmo della scrittura, d’essere state ricopiate da altro foglio o da appunti sparsi. Che è nuova conferma per considerare quest’autografo una copia in pulito, in gran parte perfetta. Nella prima riga c’è già, nei suoi elementi, il secondo verso (“di me splendea… la miglior parte”); e nella seconda riga c’è un’idea del primo verso (“de gli anni primi”). Cadono certi colori leopardiani d’obbligo (“anni… acerbi, verdi”, e “l’età più verde” e “l’età fiorita” e “il fior delle forze”), da riferire al primo verso; e il verso, liberandosi degli imprestati letterari, si articola su tre parole, di cui “mio” è come il connettivo e un po’ anche la prosa propulsiva. Leopardi del resto usò spesso questa “combinazione”, e qui stesso, all’ultima strofa, c’è la “speranza mia dolce”, “l’età mia nova”, e al principio della terza strofa c’era, tra le varianti, “gli studi miei dolci (lunghi)”. Tre correzioni ancora nei versi seguenti, tre tratti sicuri. “Veroni” sostituiti a “balconi” al v. 20, per nient’altro forse che per un gusto d’antico e di pellegrino, al plurale, per altro gusto, anch’esso leopardiano, del vago. Al v. 21 aveva scritto “l’orecchio”; ma dispiacendogli di suggerire il gesto, proprio di chi, tendendo l’orecchio, inclini la testa (brutture realistiche in sfera lirica), volto al plurale, a suggerire altro effetto, d’uno che incantato, sospeso, volga l’animo a una voce che lo commuova. Terza correzione, v. 23, “percotea” mutato in “percorrea” (“che percorrea la faticosa tela”). Urtava, “percotea” in quell’aura di canto (“perpetuo canto”), in quella sospensione. La quarta strofa si conclude coi versi:
Quando sovvièmmi di cotanta speme, / Un affetto mi preme / Acerbo e sconsolato.
Mancava qualcosa a dir tutto… ed ecco alla fine, come una cadenza, la chiusa bellissima, necessaria:
E tornami a doler di mia sventura.
In margine non vi sono che frantumi d’un’altra idea, trascritti da altri testi: “Ritornami. E fammi ancor pietà la. E tornami pietà. E sento ancor”. Appunto trascrivendo dev’esser balenata al Leopardi la nuova idea: non più “pietà”, ma “doler”. Le varianti degli ultimi versi offrono l’esempio d’un caso misto: varianti che portano alla correzione e quasi la fanno toccar con mano; e di seguito varianti trascritte da altra copia:
A l’apparir del vero / Tu, misera, cadesti: e con la mano / Un sepolcro deserto, inonorato / Mostravi di lontano.
Il verso “Un sepolcro deserto, inonorato” è cancellato nell’autografo, e sopra il verso definitivo: “La fredda morte ed una tomba ignuda”. Vi si arriva attraverso una serie di prove: “La fredda, scura morte ed una tomba ignuda, avello. Un sepolcro deserto e l’Ombre ignude. A me la tomba inonorata e nuda [cadesti. Sol porgendo la mano. La misera cadea. Sol ec. cadeva: ecc.]Il giorno estremo”.Il verso nuovo è già nella prima riga, salvo che c’è da togliere “scura”. “Avello” suggeriva forse “… ed un avello ignudo”. “Un sepolcro deserto e l’Ombre ignude” con “A me la tomba inonorata e nuda” contamina l’antico verso con un’idea del nuovo; alla fine il Leopardi corregge senza più esitare. Le ultime varianti: [cadesti. Sol porgendo la mano…] riguardano il verso “Tu, misera, cadesti; e con la mano”. Né “porgendo la mano” può essere correzione di “con la mano”, né l’estranea terza persona “La misera cadea” può essere correzione dell’evocatorio “Tu, misera cadesti”. Nient’altro, dunque, che storia di precedenti. La variante “Il giorno estremo” torna ad interessare il terzo verso, per suggerire forse “Il giorno estremo ed una tomba ignuda; ma “morte”, anzi “la fredda morte” è più efficace, «e i due aggettivi “fredda”, “ignuda”, uniti in forma di chiasmo, bloccano l’endecasillabo e fan più stretto il rapporto fra “morte” e “tomba”, già di per sé un’evidenza naturale e fatale»."

Nomi

Franca Ageno
Domenico De Robertis
Silvia
Petrarca
Leopardi
Perpetua

Luoghi

Firenze

Ordinamento

Le carte sono state numerate a lapis.

Scheda a cura di

Caterina Canneti

Revisione a cura di

Elisabetta Benucci