U. D. Manoscritto
Franca Brambilla Ageno
Appunti, lezioni su Dante (cc. 139-141, 142-148, 304-313, 314-319)
ante 1968
1968
26 cc.
Si raccolgono, in questa cartella, molti degli appunti che Franca Ageno scrisse per le sue lezioni universitarie. In particolare, si riporta qui di seguito il testo delle lezioni su Dante.
cc. 139-141 - Dante, Inf. XXXIII, situazione culturale
L’interpretazione “antropofaga” del verso famoso “Poscia più che’l dolor potél’ digiuno” sembra al Contini la più congrua alla situazione culturale (“Filologia ed esegesi dantesca”, nel vol. “Varianti e altra linguistica”, Torino, Einaudi, 1970, pp. 407-432, alle pp. 418-420). Centro della quale sono ancora una volta le ‘Derivationes’ di Uguccione da Pisa, per la loro definizione di tragedia: “ ‘oda’… componitur cum ‘tragos’, quod est hircus, et dicitur ‘hec tragedia –‘, idest hircīna laus, vel hircīnus cantus, idest fetidus; est enim de crudelissimis rebus, sicut qui patrem interficit, vel comĕdit filium, vel e contrario, et huiusmodi”. Parole affini, tranne l’esemplificazione, ripete Dante nell’Epistola a Cangrande […]. Se l’Inferno è tematicamente la parte tragica della Commedia, nulla più ircino e fetido della sede dei traditori, al cui investito vertice, oggetto anche lui di manducazione, sta infatti il parricida Bruto (e parricida è a suo modo Giuda); convenientissimo che lo preceda di “comēdit filium”. Alla Tebe degli staziani Tideo e Melanippo, paradigma esplicito di Pisa, si può ben affiancare l’Argo, da leggersi forse nella virgilianeggiante “gente argolica” (If. XXVIII 84) di Atreo e Tieste. Sta comunque di fatto che nel passo della Poetica oraziana, largamente usufruito nell’Epistola, dove si pone il discrimine fra commedia e tragedia, precisamente la cena di Tieste configura la situazione tragica:
Versibus exponi tragicis res comica non vult: / Indignatur item privatis ac prope socio / Digne carmini bus narrari coena Thyestae.
Desumendo da Uguccione la [stessa] definizione di tragedia, Dante salta gli esempi; soggiunge in scambio: “ut patet per Senecam in suis tragediis”. Una di queste è appunto il Thyestes, il cui protagonista, alla rivelazione dell’inedito crimine, apostrofa anche lui la “cruda terra”:
Agnosco fratrem. Sustines tantum nefas / Gestare, tellus? Non ad infernam Styga / Te nosque mergis? /Immota Tellus, pondus ignavum iaces;
e chiede perché posti “a tal croce” gli innocenti:
Quid liberi meruēre?...
Tieste, ma anche conte Ugolino, appartiene al novero di quei “reges et magnates” i cui fatti, sempre nella definizione di Uguccione, pertengono alla tragedia. Letta in questa luce, la storia di conte Ugolino acquista in umanità, ma il suo storico in verecondia. È potuta passare per enfaticamente escogitata e melodrammatica, “una bruttezza, un fatto fuor del naturale e del verosimile”, come il De Sanctis (insinuando di suo un’interpretazione impropria) rimprovera al Cesari di pensare, l’invenzione dei ragazzi che si offrono per vivanda al padre, con ‘agudeza’ di gusto proprio senechiano: “tu ne vestiti / queste misere carni, e tu le spoglia”. Ma l’eroismo dei figli sembra un tòpos preesistente, inserito e quasi intarsiato come caso-limite entro una vicenda proverbialmente estrema, somma abnegazione verso somma scelleratezza. Infatti una situazione sorprendentemente analoga si verifica nella canzone di gesta duecentesca ‘Amis et Amiles’. Nel punto culminante ad Ami, per castigo divino colpito dalla lebbra, è rivelato che potrebbe risanarlo un legno di sangue vivo. Ad Ami l’angelo aggiunge che il sangue dovrebbe essere quello dei figli del sosia e beneficato Amile, decapitabili non per altra mano che del loro padre. Amile, informato dall’esitante Ami della rivelazione, pur combattuto fra gratitudine e amor paterno, perpetrerà il pio misfatto, e Ami nel lavacro ricupererà la salute (ma i bambini si ritroveranno miracolosamente risuscitati). Amile, presa l’orrenda decisione, va con spada e bacinella nella stanza dei piccoli dormienti. Il rumore che tradisce il suo temporeggiamento sveglia il più grandicello, che interroga il genitore sulle sue sinistre intenzioni e ne riceve esauriente ragguaglio. “Se così stanno le cose”, replica subito (“erramment”) il minorenne,
Noz sommes vostre de vostre engenrement, / Faire en poez del tout a vo talent. / Or noz copez les chiës isnellement.
cc. 142-148 - L’utilizzazione funzionale delle fonti
Per dare un’idea di quello che sia l’utilizzazione funzionale delle fonti, cioè la trasformazione, da parte di un poeta, di elementi derivati, diciamo genericamente, dalla tradizione in elementi integranti della propria opera, vediamo la strutturazione dell’endecasillabo
De’ remi facemmo ali al folle volo,
che appartiene all’episodio dantesco di Ulisse (Inf. XXVI 126). «In quanto formula narrativa l’endecasillabo dantesco trae origine, non vi è dubbio, dall’equivalenza “remi-ali”, “navigare – correre – volare”, comune a tutta la tradizione letteraria, dagli epici latini ai manieristi gotici» (E. Raimondi, “Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca”, Torino, Einaudi, 1970, p. 31). Tra i testi latini certamente noti a Dante si possono citare da una parte:
illam [Pristim] fert impetus ipse volantem (Aen. V 219); Caeruleo per summa levis volat aequora curru (Aen. V 819); ab Italia volantem [reginam] / remis adurgnes [Caesar] (Hor., Od. I 37 16-17); Ultimus e sociis sacram conscendiis in Argon: / illa volat (Ov., Her VI 65-66); volat ille mari (Val. Flacco, Argon., 1741).
E dall’altra parte:
remigio alarum (Aen. I 301; VI 19); alarum remis (Ov., Met. V 558); remigium volucrum pinnas (Ov., Ars amat. II 45).
Ed anche:
Pennarum remis (Silio Ital., Puniche XII 97); alarum remigiis (S. Ambrogio, Ep. XXIX 17).
E infine, nel gusto sovraccarico dell’«amplificatio» manieristica:
“cur volucris celeri penna rum remige tuta / pluncis in remos, alas in carbars fingens, / transeat aeriam pelagis quasi navis ismago” (Alain de Lille, Anticlaud. IV 266-268):
«Prudentia aëris secreta scrutatur»
Aves… sub alarum remigio fluctus aëris transfretantes (Alain de Lille, De planctu Naturae, P. L. CCX, 449a).
Si tratta di un tòpos, di uno stereotipo decorative, che ha il suo centro d’indicazione in «remigium alarum». Infatti il trattatista Matteo di Vendôme, seguendo fedelmente Isidoro di Siviglia, lo introduce nella sua Ars verificatoria fra gli esempi canonici di metafora e ad esso si riferisce per illustrare il procedimento della «reciprocatio», con le due classi di traslati che ne derivano. «Rispetto al tessuto metaforico dell’insieme», dice il Raimondi, «resta ancora da prendere in esame la funzione espressiva di “folle”. Dopo l’equazione “remi-ali”, l’idea del “volo” non è se non un corollario, un complemento quasi logico del processo iniziato, sebbene poi dipenda dalla sua presenza il profilo ascendente del verso con il suggerimento di un moto agevole e aperto, fra cielo e mare che si stendono dinanzi: e anche il gioco allitterativo delle liquide ne trae nuova forza iconica» (Raimondi, “Metafora e storia”, p. 34). Secondo il Raimondi, «i tre termini “remi-ali-volo” formano una serie fortemente omogenea e compatta, all’interno della quale l’inserto di “folle”, spostando il discorso da un ambito visivo e concreto a una sfera astratta e spirituale e sottolineandolo inoltre col mutamento di classe lessicale, agisce come una sorta di sorpresa, come una dissonanza che… tuttavia… annuncia al lettore la prospettiva segreta di un ordine più vasto» (Raimondi, “Metafora e storia”, pp. 34-35). La memoria del lettore è ricondotta al motivo della follia, così come si è venuto proponendo nei canti antecedenti dell’Inferno:
temo che la venuta non sia folle (II 35); sol si ritorni per la folle strada (VIII 91); oh cieca cupidigia e ira folle (XIX 88),
e associa oscuramente a questo campo di significati già noti anche la scelta di Ulisse (Raimondi, “Metafora e storia”, p. 35). Nello stesso tempo, sul piano narrativo immediato, se lo si riferisce all’eroe che rievoca, «folle volo» anticipa la catastrofe dell’avventura, quasi a ripresa dell’allusivo «perduto a moria gissi» dell’esordio di Virgilio (v. 84).
Proprio per questo la formula «folle volo» presenta come un’antitesi interna fra letizia e dolore, fra magnanimità e aventura, analoga a quella che regola tutto il movimento dell’episodio. Si confrontino infatti: «alto mare aperto» e «compagna picciola» (vv. 100 e 101-102); «cento miglia / perigli» e «picciola vigilia» (112-113 e 114); «orazion picciola» e «cammino» (v. 122); «noi ci allegrammo» e «tornò in pianto» (v. 136).
Ma non basta: si sa che mille rinvii e riferimenti e richiami interni legano saldamente fra loro tutte le parti del poema in una robustissima “struttura”. La solenne terzina del I canto del Purgatorio riprende l’episodio di Ulisse:
Venimmo poi in sul lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo che di tornar sia poscia esperto (Purg. I 130-132).
E non a caso certo i due canti, quello dove si narra del «folle volo» di Ulisse, finito in catastrofe, e quello con cui si inizia una più serena fase del viaggio del pellegrino oltramondano verso la salvezza, si chiudono con una serie identica di parole in rima (in comune è anzi, a fine verso, un’intera frase: «com’altrui piacque»):
ché de la nova terra un turbo nacque / e percosse del legno il primo canto. / Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, / a la guasta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso (Inf. XXVI 137-142);
venimmo poi in sul ciel diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo che di tornar sia poscia esperto. / Quivi mi cinse sì com’altrui piacque: / oh maraviglia! Che qual egli scelse / l’umile pianta, cotal si rinacque / subitamente le onde l’avelse (Purg. I 130-136).
E si badi che anche diserto : esperto ripetono due parole in rima dell’episodio di Ulisse (98 e 102). Via via, a paragone della navigazione dell’uomo nuovo cristiano: per correr migliori acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno… (Purg I 1-2), si approfondisce il senso del «folle volo» di Ulisse non guidato dalla grazia divina. Una ripresa, e insieme uno sviluppo del motivo si ha anche in Par. XXVII 82-83:
sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse,
dove esso è contrapposto, a distanza, all’ «alto volo» del viaggiatore cristiano:
mercé di colui / ch’a l’alto volo di vesti le penne (Par. XV 53-54); E quella pia che guidò le penne de le mie ali a così alto volo (Par. XXV 49-50).
cc. 304-313 - Struttura del canto XXX dell’Inferno
Il canto XXX dell’Inferno, incorniciato com’è fra gli exempla dell’esordio e il proverbio o sententia communis della peroratio (per cui è stato arrecato un puntuale riscontro da Bernardo: “Audire quod turpe est, pudori maximo est”), trova un’unità esterna nell’obbedienza alle più autorevoli norme della retorice e per quella che sia chiama modernamente la “struttura”, si può leggere come esemplare dell’intero poema. L’attacco, che è costituito da un’unità sintattica insolitamente lunga, vale sicuramente come un inizio assoluto di cosa autonoma:
Nel tempo che Iunone era crucciata / per Semelè contra’l sangue tebano, / come mostrò una e altra fïata, / Atamante divenne tanto insano, / che, veggendo la moglie con due figli / andar carcata da ciascuna mano, / gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli / la leonessa e’ leoncini al varco”; / e poi distese i dispietati artigli, / prendendo l’un, ch’avea nome Learco, / e rotollo e percossero ad un sasso; / e quella s’annego con l’altro carco (1-12).
Segue un’altra similitudine:
E quando la fortuna volse in basso / l’altezza de’ Troian che tutto ardiva / sì che ‘nsieme col regno il re fu casso, / Ecuba triste, misera e cattiva / Poscia che vide che vide Polissena morta, / e del suo Polidoro in su la riva / del mar si fu la dolorosa accorta, / forsennata latrò sì come cane / tanto il dolor le fe’ la mente torta (13-21). I due motivi mitologici, l’umanità di Tebe e la superbia umiliata di Troia, correvano paralleli fin dall’opera di Stazio e più s’erano accostati nella cultura francese di un secolo e mezzo innanzi, coi romanzi di Tebe e di Troia. Ma la fonte diretta di Dante qui è Ovidio, che, emulo superato nella bolgia dei ladri (“Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio”, XXV 97-99), gli aveva suggerito la descrizione dell’ultima bolgia coi colori della peste di Egina (“Non credo ch’a veder maggior tristizia / fosse in Egina il popol tutto inferma, / quando fa l’aere sì pian di malizia, / che li animali, infino al picciol vermo, / cascaron tutti, e poi per le genti antiche, / secondo che i poeti hanno per fermo, / si ristorar di seme di formiche; / ch’era a veder per quella scura valle / languir li spirti per diverse biche”, XXIX 58-66). Identico il grido del forsennato (Met. IV 513-514, “Io, comites, bis retia tendite silvis! Hic modo cum gemina visa est mihi prole leaena”), identico il massacro del pargoletto (518-519, “more rotat fundae, rigido infantia saxo / discutit ora”), dove sasso addirittura suona più improprietà che latinismo importuno (lo si veda, a contrasto, opportunissimo nel “sasso di monte Aventino”, If XXV 26, o nel “crudo sasso intra Tevero ed Arno”, Pd XI 106). Ma che si tratti di derivazione subìta, mostra soprattutto un indizio interno, l’andatura prosaica dell’elocuzione: l’allusione rattratta al motivo di quella demenza, l’ira di Giunone (benché, da causa tramutata in circostanza, dia ansa alla bella, e poi liricamente invalsa, formula “Nel tempo che…”), l’allusione ancora più sbrigativa e impaziente, alla precedente aneddotica ovidiana (“una ed altra fïata”); la tediata andatura di glossema (“l’un che avea nome Learco”). Tutt’altra cosa il passo relativo a Ecuba, dove non è più riassunto, ma scorcio figurativo. Ma per chi tanto lusso di ricordi illustri, di regie aventure? Il pellegrino d’oltretomba era impegnato (XXIX 73-139) in conversari volgenti all’ameno con un aretino innominato (Griffolino secondo i commenti trecenteschi), dannato per l’alchimia ma morto sul rogo per non aver saputo insegnare il volo a un Albero da Siena, e con un falsario di nome Capocchio, probabilmente fiorentino, che seconda Dante contro i Senesi e la loro leggerezza. Le furie di Tebe e le furie troiane sono paragonate a quelle di “due ombre smorte e nude, / che mordendo correvan di quel modo / che’l porco quando di porcil si schiude. / L’una giunse a Capocchio, ed in sul nodo / del collo l’assannò, sì che, tirando, / grattar li fece il ventre al fondo sodo”. L’Aretino, che rimane tremando, illeso per questa volta, spiega all’eccezionale viandante che “quel folletto è Gianni Schicchi”, che aveva contraffatto il morto Buoso Donati testante per assicurarsi “la donna de la torma”, la cavalla che valeva, secondo il Lana, ben duecento fiorini d’oro. L’altra ombra furiosa è “Mirra scellerata, che divenne / al padre fuor del dritto amore amica”. Dante opera in tutto il poema una vasta contaminazione di elementi disparatissimi: personaggi contemporanei e figure del mondo classico e mitologico, cronaca minuta e perfino pettegolezzi municipali e avvenimenti decisivi per le sorti dell’umanità. Nell’età “teologale” in cui egli scrive non v’è senso della distanza tra fatti e storia, di una prospettiva in cui vadano disposti: eventi e personaggi classici e contemporanei vengono accostati su un unico piano, mescolati e per così dire pareggiati alla luce di un’unica verità morale e religiosa. «Ma», dice il Contini, «l’assidua frequentazione delle sue scritture (di Dante) non dovrebbe detrarre ogni freschezza allo stupore di veder frammiste, e proiettate su identica scala, storia e cronaca, mitologia sacra e profana, entità documentarie e immaginarie: fuori del tempo per noi storico, e sul piano d’un’univoca verità». «Quale criterio soccorrerà… a cementare storie così disparate? L’ordinamento dei regni oltre terreni, e in particolare dell’Inferno, per cui basta la morale dei Peripatetici, si fonda su un’etica classificatoria e intellettualistica. Senza uscire da quest’ultima bolgia de le diece», ad abitarla sono deputati i falsari (perciò, a contrappasso, stravolti dalle infermità nella loro apparenza corporea): oggetto della manipolazione fossero poi elementi chimici, individui umani, monete, la verità storica. Così al primo cibreo per cui il dottor chimico (Griffolino d’Arezzo, “per l’alchimia che nel mondo usai”, XXIX 119 e Capocchio, “che falsai li metalli per alchimia” XXIX 137), e il faceto imbroglione [maestro Adamo] testé defunti, la comparsa dell’Eneide [“il falso Simon greco da Troia”, XXX 98], la peccatrice del mito antico [“Mirra scellerata che divenne / al padre fuor del dritto amore amica” XXX 38-39] e il personaggio del vecchio testamento [“la falsa che accusò Giuseppe”, cioè la moglie di Putifarre, XXX 97] sono coinquilini (coabitazione costante, certo, ma che qui giunge al suo limite perché si trasforma in contatto fisico, in colluttazione e via di fatto, il pugno del virgiliano Sinone sul ventre del maestro registrato a un anagrafe recente [Maestro Adamo], si aggiunge il secondo coacerco che somma, all’ombra di una mera etichetta verbale e fuori… da ogni conosciuto canone teologico e giuridico, l’alchimista naturae simia [Grisolino e Capocchio, XXIX 139] (benché evidentemente in malafede, se no si presume che starebbe coi sodomiti e li usurai), la calunniatrice [la moglie di Putifarre], l’impostore [Sinone], il falso monetario [maestro Adamo], il truffatore per sostituzione di persona [Mirra e Gianni Schicchi]. Codesta escogitata associazione non riesce a differenziarsi chiaramente, deludendo le industrie degli esegeti, in supplizi diversi, ed è molto se i falsificatori sono degradati, appunto, a bruti infuriati, a porci sfrenati dal chiuso e avventati sui compagni di pena, XXX 26-27). A mezzo del canto comincia l’episodio principale. La solennità della formula, ben nota d’altronde come iniziale (Inf. XXII, “Io vidi già cavalier muover campo…”), segna l’intervallo. “Io vidi un…”. Lo stacco è accompagnato da due sostantivi-rima, unici in rima, e che dal loro stesso eterogeneo contatto fanno sgorgare l’immagine, meno la serie d’immagini precisamente patologiche, l’idropisi, l’etico, alla prima delle quali si annette la temeraria metafora ‘dispaia’, ‘fa sproporzionati’, alla seconda esquisito e quasi latino ‘rinverte’; e sopra il cumulo di rime, più ignobile e portante, domina la ventraia. Leitmotiv anatomico, che ritorna come “l’epa croia”, ‘l’epa (enfiata)”, “il ventre” assiepato innanzi agli occhi (in bocca a Sinone); mentre, pudicamente, l’interessato lamenta solo “le membra legate” […], “le membra che son gravi” (107). «Grottesco e prezioso sorgono… dalla medesima fonte, ma domina il secondo predicato: questo deforme è autorevole. Tale si chiarisce intanto il suo linguaggio. Della sua oscurità biografica si prende qualche commentatore per definirlo, umile artiere, subalterno mancipio dei conti Guidi. A parte che la chiamata di correo è tattica ovvia ai frodo lenti (Guido da Montefeltro non si scarica identicamente sul “gran Prete”), codesti glossatori non hanno posto mente… che costui, oltre tutto straniero di lontana terra [“magister Adam de Anglia familiaris comitum de Romena” in un atto bolognese del 1277], si proclama maestro Adamo; e secondo quest’enfasi ‘maestro’ appare termine tecnico del mondo universitario, grado sinonimo di dottore, e la facoltà, piuttosto che la medica, è ancora quella delle Artes, fra le quali vennero classificate le cosiddette scienze naturali… Come Griffolino (se il Lana e il Buti hanno ragione di chiamarlo “maestro Griffolino”), come Capocchio (se Benvenuti, il Buti, l’Anonimo Fiorentino hanno ragione di farlo conoscente e compagno di studi di Dante), Adamo è un chierico, a qualunque sorta di operazioni sia addetto, e del dettatore concettoso ritiene l’eloquenza… La sua apostrofe s’inizia parodiando profanamente (ma prima di lui l’aveva notoriamente parafrasata, a fine amoroso, il secondo sonetto della Vita nuova: VI 3 “O voi che per la via d’Amor passate, / attendete e guardate / s’elli è dolore alcun, quanto ‘l mio, grave”, e due canti innanzi, XXVIII 132, se n’era giovato nientemeno che Bertran de Born) la parola di Geremia (Thren. I 12) per il Redentore: “O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus”, e subito dopo il “gocciol d’acqua” bramato è quello che il dives di Luca XVI 24 implorava da Lazzaro. Il gocciol d’acqua a sua volta contrasta con la pingue vita di cui il paziente fruì in terra, e l’antitesi è figura capitale nella retorica del maestro Adamo. L’organizzazione dell’intero discorso è quella di un umanista volto a spericolate mansioni anziché d’una rude simia della Zecca, La rima franta “non ci ha”, è istituto quotidiano presso i guittoniani. Precisamente sul vittorioso traguardo, ben più che ostacolo, della parola in rima si svolge l’euristica di maestro Adamo: vocaboli rari o unici come ‘mondiglia’ traslato [normalmente è quel che resta del ‘mondare’ il grano o altri cereali], ‘leppo’, ‘rinfarcia’, ‘si squarcia’ metaforico (riferito alla cateratta d’ingiurie che ne esce); euristica violenta che naturalmente contagia anche il narrato […] e la parlata di Sinone, naturalmente ben discreto fin dal II dell’Eneide […]. In virtù della raccomandatissima perifrasi o circuitio dell’ ‘eamdem rem dicere sed commutate’, la nozione del bere acqua è enunciata come “beccar lo specchio di Narcisso”, 128 (originariamente ovidiano, ma ormai parte della retorica volgare, dal poema di Troie e dal Narcisus al Roman de la Rose, da Ventadorn a Peirol, da Chiaro al Novellino). Agilisimo il contrappunto: “L’una è la falsa…, L’altro è’l falso”, 97-98 (così è sussunto il parallelismo di Bibbia e mitologia, sancito nel solco isidoriano da uno dei testi obbligatori delle scuole, l’ecloga di Theodulo [probabile pseudonimo di Godescalco, un sassone morto fra l’866 e l’869]); “Tu di’ ver…, Ma tu non fosti sì ver…, Là ‘ve del ver…” (112-114); l’opposizione delle membra “gravi” e del braccio “sciolto” o “disciolto” (107-108). E un’agudera è il “Sinon greco di Troia” (per allusione alla cittadinanza concessa da Priamo). Nella stessa chiave il rinfaccio di Sinone: “quando… non l’avei…; Ma… l’avei quando…” (109-111); “S’io…, e tu…” (115, proprio come nel famoso sonetto dell’Angiolieri a Dante: “Dante Alighieri, s’i’ son buon begolardo, / tu mi tien bene la lancia a le reni”); “per un”, “per più che…” (116-117). Ciò che più importa, tuttavia, il discorso di Adamo è un discorso legato: lo “specchio di Narcisso” è un’immagine sensibile ravvivata in un bagno culturale, ma è provocato dal contesto tutto intonato ai rinfacciati sintomi della malattia (e forse ha ragione chi osserva che “leccare” risveglia l’idea del cane e legge in quello specchio una risposta ironica a chi aveva accusato Adamo deforme, poiché esso avrebbe riflettuto tutt’altre sembianze che quelle del “molto buono e bellissimo cavaliere”). La “lega suggellata del Batista” è una definizione icastica del fiorino ma dentro la confessione d’un falsario; fonte Branda, sia la Senese che ci leggono i commenti antichi, sia un’altra più appropriata a Romena, è uno spiritoso tocco di colore locale, ma inserito nell’invettiva contro i conti Guidi (II) e Alessandro (I) e il loro fratello (Aghinolfo o Ildebrandino). Fino il brano celeberrimo dei ruscelletti del Casentino non può essere isolato come frammento senza sospendere la sintassi: occorre continuare con “sempre mi stanno innanzi”, perché il loro ricordo è lì come tantalizzante strumento di pena. Non vi è pezzo lirico (e ciò va ripetuto per le immagini, come quella della mano fumante d’inverno, XXX 92) che non sia funzionale, e tutti si può dire che erompano dalla linea strutturale. Più in generale: l’immaginazione, mai svincolata e gratuita, cresce su una cultura concreta. Può darsi che per gli alchimisti Dante pensasse alla loro specifica malattia, posto che secondo Avicenna il vapore d’argento “facit accidere paralysim”. Ma è certo che l’invenzione relativa ad Adamo, ben più che passi scritturali, richiama il tema dell’avaro tantalizzato dalla “hydropica sitis” in Alano di Lilla. E a sua volta la rappresentazione dell’idropico, compresa l’epa e il tamburo, dipende strettamente dalla semeiotica del tempo: Bartolomeo Angelico, nel VII del De proprietatibus rerum, premesso che nell’idropisia “Virtus digestiva degeneratur in epato” (e il vocabolo è ripetuto assai spesso), ne individua una variante, la timpanite, così chiamata “quod ad modum tympani sonat venter” e nella quale “extenditur venter et sonat sicut tympanum”, “collum et extrema efficiuntur gracilia” (si pensi all’immagine “un fatto a guisa di lecito”, v. 49), la sete si fa ardente. Il “leppo”, l’ “arsura”, il “capo che duole” sono, presso il medesimo trattatista, sintomi della “febris putrida”: “dolor capitis, malicia anhelitus, sitis et similia”. Il linguaggio insomma alonato di perenni armoniche culturali, che dalla dominante classica dell’inizio vanno ai toni biblici della chiusa. La fortuna che “volse in basso” l’altezza dei Troiani (vv. 13-14) richiama il “fortuna recessit” di Aen. III 53 proprio riferito a Troia; l’espressione “insieme col regno il re” (v. 15) riflette Ovidio, Met. X II 404, “Troia simul Priasmus que recessit”. Perfino dietro i sublimi “canali freddi e molli” si avverte il bucolico “Hic gelidi fontes, hic mollia frata” (X 42). All’altro estremo, “d’ogne tristizia ti disgrava” (v. 144) riporta all’Ecclesiastico XXX 24, “Tristitiam longe repelle a te”; e il successivo: “fa ragion ch’io ti sia sempre allato” può essere suggerito dalla Genesi XVII 1 “Ambula coram me e testo perfectus”. Nemmeno gli echi della poesia volgare restano estranei all’attiva cultura linguistica di Dante, se la visione delle acque tantalizzanti rinnova il concetto d’un probabile corrispondente di Dante stesso, il vecchio Terino da Castelfiorentino nel sonetto a Onesto “Ché maggior pena non si può avere / che aver l’acque de le chiare fonti / e aver sete e non poterne bere”; e la rima scimia : alchimia (XXIX 137-139) era già in un sonetto di Chiaro Davanzati a Palamidesse. Attraverso la ricerca delle “fonti” si dimostra che alla funzionalità si aggiunge l’intensa storicità della linguistica dell’invenzione. Il litigio fra l’idropico e il febbricitante è stato cesellato e rifinito secondo la retorica, nel “genere”, a suo modo petroso, della tenzone con Forese. La materia del contendere può dirsi esaurita quando Virgilio attuò uno dei suoi interventi più pedagogici e severi. E poiché quella giostra oratoria verteva sul nulla, cioè su una violenza puramente verbale, si sarebbe tentati di attribuirgli l’intenzione d’intervenire a compiere le vendette del contenutismo sul calligrafismo. Nella realtà del testo, la sua funzione non è meno paradossale: quella di aggiungere la coscienza morale-estetica di Dante a una “bassa voglia” ormai esaudita fino all’estremo della sua capacità… Dante vuole dare udienza alle ciarle delle ciane e dei barrocciai e insieme bandire la sublimità della torre d’avorio, godere la rappresentazione, ornarla di ogni fregio elocutivo e poi ancora annetterle la coda d’una sentenzia savia. Il suo intento totale contraddittorio è conseguito mediante una valutazione interna ai fatti: ‘la vergogna di non rinvenire una scusa adeguata” è, perciò stesso, scusa adeguata: a quel modo che chi in sogno respinge la propria visione e desidera che il suo stato sia di sogno, già si trova nella realtà del suo desiderio’ (vv. 136-141). Il secondo grande proverbiale passo del canto, “E qual è quei…” è dunque altrettanto funzionale del primo, “Li ruscelletti…”. Ma non resta meno sdegno di meraviglia che due modalità opposte della mente, l’atteggiamento estroverso e l’introverso, forniscono a Dante occasione in tutto pari, uguale quantità di poesia».
cc. 314-319 - Struttura di un testo. Il c. X del Purgatorio
Lawrence Baldassaro, un americano evidentemente di origine italiana, ha cercato di descrivere la struttura del decimo canto del Purgatorio (L. Baldassaro, “Structure and movement in Purgatorio X”, in «Lingua e stile», X, 1975, pp. 261-274). Egli comincia con l’osservare che il «motivo» centrale del canto è proposto nei primi versi:
Poi fummo dentro al soglio de la porta / che’l malo amor de l’anime disusa, / perché fa parer diretta la via torta, / sonando la sentì esser richiusa (1-4).
Si dice qui che l’amore mal diretto (cfr. XVII 97-102) fa parer dritta la via torta. Più innanzi Dante afferma che la stessa superbia è una specie di cammino all’indietro:
O superbi cristian, miseri lassi!, / che, della vista della mente infermi, / fidanza avete ne’ retrosi passi… (121-123).
I superbi non avvertono che i loro passi sono in realtà ‘passi all’indietro’. Il motivo ricorrente dell’inversione e del conflitto è evidente nella struttura dei tre rilievi. Benché essi siano destinati a offrire esempi di umiltà, la loro struttura implica la polarità di superbia e umiltà. In ognuno dei tre esempi una figura maschile a sinistra è di fronte a una figura femminile a destra: Gabriele di fronte a Maria, Davide a Micol, Traiano alla vedovella (34-45, 55-69, 73-93). Un altro esempio di quella che si potrebbe chiamare ‘metafora dello specchio o speculare’, è nel cammino seguito da Dante e Virgilio lungo il fianco della montagna, un sentiero i cui andirivieni Dante paragona al movimento dell’onda “che fugge e s’appressa” (7-12). Secondo il Baldassaro, vi sarebbe un’antitesi fra questo sentiero che rende l’ascesa così ardua, ma è parte della via “diritta” che conduce a Dio, e la “via torta” del v. 3, che il “mal amor de l’anima” fa parere diritta. Vi sono anche immagini verbali dell’opposizione (reversal), o antitesi, motivo che caratterizza la struttura del canto decimo. Nel salire al primo girone, Dante e Virgilio devono seguire un sentiero che “si muoveva d’una e d’altra parte”, “or quinci or quindi” (8 e 12). Quando giungono al girone, Dante lo osserva , guardando “ora dal sinistro e ora dal destro fianco” (v. 26). Nel secondo rilievo, David che danza davanti all’arca santa “più e men che re era in quel caso” (66). Dinanzi al secondo rilievo i sensi di Dante sono in conflitto:
Dinanzi parea gente, e tutta quanta, / partita in sette cori, a’ due mie’ sensi / faceva dir l’un “No”, l’altro “Si, canta”. / Similemente al fummo de li incensi / che v’era imaginato, li occhi e’l naso / e al sì e al no discordi pensi (58-63).
La rapidità e il ritmo “staccato” del dialogo fra Traiano e la vedovella è piuttosto raro nella Commedia e sottolinea la tensione la tensione e il conflitto tra le due figure.
La miserella intra tutti costoro / parea dicer: “Segnor, fammi vendetta / de mii figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”. / Ed elli a lei rispondere: “Or aspetta / tanto ch’i’ torni”. E quella: “Segnor mio”, / come persona in cui dolor s’affretta, / “se tu no torni?” Ed ei: “Chi fia dov’io, / la ti farà”. Ed ella: “L’altrui bene / a te che fia, se’l tuo metti in oblio?” (82-90).
Nel rilievo dell’Annunciazione è implicita la contrapposizione tra Maria ed Eva, che si esprime direttamente in Parad. XXXII 4-6:
La piaga che Maria richiuse e unse, / quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi / è colei che l’aperse e che la punse.
Il fatto che “esta favella” sia impressa nella figura di Maria “propriamente / come figura in cera si suggella”, impressa dunque specularmente, fa pensare che Dante accenni alla lettura speculare della parola Ave (40) (giochetto familiarissimo al Medio Evo), che dà appunto il nome di Eva. Il conflitto cui si allude tra Maria ed Eva è analogo al conflitto tra superbia e umiltà, all’opposizione tra via diritta e via torta, tra le presenti cose, che, come Dante confesserà a Beatrice (XXXI 34-36), tendono a far deviare dal retto sentiero, e i beni celesti, che costituiscono il vero fine dell’uomo. Nell’antipurgatorio, luogo di attesa, il progresso dell’anima è ancora incerto. La stessa guida, Virgilio, lo dichiara alle anime che chiedono “la via di gire al monte”.
Voi credete / forse che siamo esperti d’esto loco; / ma noi siam pellegrin come voi siete (II 61-63).
E quando raggiungono la prima cornice Dante è “stancato ed amendue incerti” della loro via (X 19-20)- I rilievi che si offrono allo sguardo del pellegrino non appena egli mette piede sulla prima cornice;
Là su non eran mossi i piè nostri anco, / quand’io conobbi quella ripa intorno / che di dritto di salita aveva manco, / esser di marmo candido e adorno / d’intagli sì… (X 28-32),
rappresentano il conflitto tra superbia e umiltà, tra male e bene, che è alla radice della costruzione stessa del Purgatorio, del movimento generale delle anime penitenti, insieme liberazione dal male e progresso nel bene. La contemplazione dei rilievi dà inizio a quel movimento da sinistra verso destra che è caratteristico della montagna della penitenza. Dopo aver descritto le figure di Gabriele e di Maria, Dante continua:
“Non tener pur ad un loco la mente” / disse ‘l dolce maestro, che m’avea / da quella parte onde il cuore ha le gente. / Perch’io mi mossi col viso, e vedea diretto da Maria, da quella parte / onde m’era colui che mi movea, / un’altra storia nella roccia imposta; / per ch’ii varcai Virgilio e fe’ mi presso, / acciò che fosse alli occhi miei disposta (X 46-54).
La storia rappresenta David e, “di contro”, Micòl. Dopo averli descritti, Dante nota ancora:
I’ mossi i piè del loco dov’io stava / per avvisar da presso un’altra storia / che di dietro a Micòl mi biancheggiava (70-72).
Stesso ordine nella descrizione delle altre due figure, Traiano e la vedovella. Dalle parole di Virgilio gli sguardi di Dante vengono poi diretti verso sinistra, donde vengono i superbi chini sotto il peso dei massi,
“Ecco di qua, ma fanno i passi radi” / mormorava il poeta “molte genti: / questi ne ‘nvieranno alli alti gradi”. / Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti, / per veder novitadi ond’e’ son vaghi, / volgendosi ver lui furon lenti (100-105).
La successiva allocuzione al lettore:
Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi / di buon proponimento per udire / come Dio vuol che’l debito si paghi… (106-111),
ricorda l’elemento didattico della Commedia: la penitenza dei superbi dev’essere un exemplum per il lettore, come gli altorilievi erano exempla per il pellegrino ultraterreno. Contrapposizioni, movimento, exempla del canto decimo del Purgatorio sono armonizzati con la natura e gli scopi dell’intero poema: «Finis totius et partis est, dice Dante nella lettera a Cangrande, removere viventes in hac vita de statu miseriae, et perducere ad statum felicitatis».
Dante
Contini
Uguccione da Pisa
Cangrande
Bruto
Giuda
Tideo
Melanippo
Atreo
Tieste
De Sanctis
Cesari
Ami
Amile
E. Raimondi
Petrarca
Valerio Flacco
Ovidio
Silio Italico
S. Ambrogio
Alain de Lille
Matteo di Vendôme
Isidoro di Siviglia
Virgilio
Ulisse
Bernardo
Polissena
Polidoro
Stazio
Cadmo
Aretusa
Giunone
Ecuba
Gianni Schicchi
Lana
Griffolino d’Arezzo
Putifarre
Sinone
Grisolino
Capocchio
Guido da Montefeltro
Buti
Adamo
Bertran de Born
Geremia
Luca
Lazzaro
Troie
Ventadorn
Peirol
Chiaro
Theodulo
Godescalco
Priamo
Angiolieri
Aghinolfo
Ildebrandino
Avicenna
Alano di Lilla
Bartolomeo Angelico
Terino da Castelfiorentino
Chiaro Davanzati
Palamidesse
Forese Donati
Lawrence Baldassaro
Gabriele
Maria
Davide
Micol
Traiano
Eva
Beatrice
Torino
Tebe
Pisa
Argo
Troia
Egina
Aventino
Casentino
Le carte sono state numerate a lapis.
Caterina Canneti
Elisabetta Benucci