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Scheda di archivio


Collocazione


Livello di descrizione

U. D. Manoscritto

Autore

Franca Brambilla Ageno

Titolo (incipit)

Appunti, lezioni, "Struttura di un canto leopardiano" (cc. 320-327)

Data Iniziale

ante 1968

Data Finale

1968

Consistenza

8 cc.

Contenuto

Si descrivono qui di seguito le carte 320-327, contenente gli appunti per una lezione di Franca Ageno su Leopardi.

"Struttura di un canto leopardiano

«Il canto “A se stesso” (A. Monteverdi, “Frammenti critici leopardiani”, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1967, pp. 125-136, saggio intitolato “Scomposizione del canto ‘A se stesso’”) apparve per la prima volta nell’edizione napoletana dei “Canti” di Giacomo Leopardi uscita nel 1835, e vi trovò posto, non immeritamente, tra le poesie d’amore, anche se l’amore non vi sia neppur nominato, e sol vi si confessi come “l’inganno estremo”. Tuttavia, idealmente, anzi che dopo “Il pensiero dominante” e “Amore e morte”, il canto “A se stesso” si colloca tra Consalvo e Aspasia, tra il canto della vaneggiante illusione e quello del distaccato disinganno. Diverso dal “Consalvo” e dall’”Aspasia”, esso prescinde da ogni compiacimento autobiografico. E si distingue da quei canti, di tanto ampia eloquenza, anche per la sua brevità, esteriore e interiore. Se ne distingue inoltre per il metro, che non è, come in quelli, l’endecasillabo sciolto». «Il metro, qui, apparentemente, è quello che s’era affermato nei grandi idilli e a cui il Leopardi rimarrà fedele anche negli altri migliori suoi canti: mescolanza di endecasillabi e di settenari, or sciolti or legati da rime, senonché manca, qui, ogni partizione strofica, come in altre poche poesie di ugual metro altrettanto brevi in verità quanto “A se stesso” (quali la “Imitazione” e lo “Scherzo”), o almeno di estensione modesta (quali i due frammenti da Simonide, e il “Coro dei morti” delle “Operette morali”». «Da tutte queste poesie, tuttavia, metricamente si distacca il canto “A se stesso”. Non ha partizione strofica; ma l’ultima strofa si articola (diversamente da ogni altra strofa, o lassa, d’ogni altra “canzone libera” leopardiana) in parti chiaramente simmetriche. Son sedici versi in tutto, dieci endecasillabi e sei settenari, e si distribuiscono in tre gruppi, di cinque, cinque e sei versi: gruppi ascendenti che han tutti un settenario all’inizio e un endecasillabo (due endecasillabi il terzo) alla fine; gli altri endecasillabi si trovano puntualmente al secondo e al terzo verso di ogni gruppo». «Tre sole sono le rime; e non interessano che sei versi, in due soli dei tre gruppi. Nel primo gruppo, infatti, una rima allaccia l’ultimo verso al terzultimo, e così avviene anche nel terzo gruppo, dove però un’altra rima allaccia il penultimo verso al primo: privo di rime è il gruppo mediano». «Ecco, per riassumere, lo schema del canto:
7. 11. 11a 7 11a / 7 11 11 7 11 / 7b 11 11 7c 11b 11c
Come risponda, ottimamente, a questo schema metrico lo svolgimento del pensiero, mostra anzi tutto il ritorno, all’inizio di ciascun gruppo, del medesimo motivo (vv. I, 6, 11):
Or poserai per sempre… / Posa per sempre… / T’acqueta omai…
E il progressivo variar dei concetti, dall’uno al’altro dei tre gruppi, ogni volta s’irradia, conseguente, da quel fermo spunto iniziale.
Or poserai per sempre, / stanco mio cor. Perì l’inganno estremo / ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, / in noi di cari inganni, / non che la speme, il desiderio è spento / Posa per sempre. Assai / palpitasti. Non val cosa nessuna / i moti tuoi, né di sospiri è degna / la terra. Amaro e noia / la vita, altro mai nulla: e fango è il mondo. / T’acqueta omai. Dispera / l’ultima volta. Al gener nostro il fato / non donò che il morire. Omai disprezza / te, la natura, il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera, / e l’infinita vanità del tutto.
Singolare la potenza della formula finale, a cui il metro stesso dà singolare risalto, riservandole, fuor del disegno normale, un apposito verso. Delle tre parti, infatti, di cui consta il canto, la terza ed ultima eccede di un verso la misura delle altre; e si tratta, appunto, dell’endecasillabo riservato alla formula finale». «Sobria architettura di classico equilibrio. Col quale tuttavia contrasta, o nel quale (diciamo meglio) si compone la mobilità estrema degli elementi costruttivi. Non c’è quasi verso in questo canto che non sia sintatticamente spezzato. Maggiore del numero dei versi è quello delle proposizioni. E di diciotto, quante esse sono, due sole sono subordinate (l’inganno “ch’eterno io mi credei”; il potere “che ascoso a comun danno impera”)». «Delle altre, due sole si legano, mediante congiunzione (v. 8 ‘ne’’, 10 ‘e’), alla proposizione precedente; le rimanenti sono tutte autonome, senza alcun legame né di subordinazione né di coordinazione. Brevissime, in genere: cinque se ne contano nei primi tre versi, dieci dal sesto al tredicesimo. La più lunga è l’ultima (vv. 13-16), ma è interrotta da una subordinata (v. 15), ed è spezzata inoltre dalla presenza di quattro allineati accusativi (“te, la natura, il brutto, / poter [che, ecc.] e l’infinita vanità del tutto”)». «Frequenti, conseguentemente, sono le pause; le più pesanti (undici) segnate da punti; e meritano un particolare rilievo le due che delimitano, prima e dopo, nel terzo verso, una parola sola: “Perì”. Tra le pause maggiori s’intercalano poi, non meno numerose, le pause minori (minori, ma sensibili), segnate da virgole. Una anzi, alla fine del v. 10, è segnata da un punto e virgola, dove l’interpunzione vuole palesemente rovesciar la funzione, che normalmente è d’avvicinamento, della copulativa ‘e’ (…”altro mai nulla; e fango è il mondo”). Due proposizioni, che hanno il soggetto in comune, mancano di verbo (“Amaro e noia / la vita, altro mai nulla”). Un verbo invece costituisce da solo un’altra proposizione (“Perì”). Altrove il verbo si presenta con la semplice scorta di un avverbio o di una locuzione avverbiale (“Ben sento”, “Posa per sempre”, “Assai / palpitasti”, “T’acqueta omai”, “Dispera / l’ultima volta”)». «Pochi sono gli aggettivi: il primo suona, sconsolato, nell’unico vocativo di tutto il canto (“stanco mio cor”): due altri, allitterati e assonanti (“estremo”, “eterno”), sorgono a fissare i due tempi del fatale “inganno”; due altri, entrambi in posizione di rilievo, il primo martellato dalla rima (“brutto”), il secondo isolato dalle pause (“ascoso”), vengono a caratterizzare il potere, l’”arcana malvagità”, che governa il mondo; l’ultimo (“infinita”) l’allunga lento ad abbracciare l’universale vanità: tutti, fuori d’ogni compiacimento ornativo, accusano la necessità della loro presenza. Ma il discorso, essenzialmente, è fatto di verbi e di sostantivi». «Dei verbi qualcuno si ripete (“poserai” – “posa”; “perì” – “perì”), altri ripetono il medesimo movimento (e son gli imperativi “posa”, “t’acqueta”, “dispera”, “disprezza”). Prevalgono tuttavia i sostantivi, quantitativamente e qualitativamente. Tra loro uno solo si ripete, ed è, più che ripetizione, contrapposizione tra il singolo “estremo inganno”, non ancor placato nel ricordo, e i generici “cari inganni”, che la memoria ha già riscattati: gli ameni inganni della prima età». «Del resto quasi tutti i sostantivi sono ricchi di espressività, anche quelli che stanno, abbinati, a distinguere concetti affini (“speme” e “desiderio”, “moti” e “sospiri”); ma quelli specialmente che, dal “nulla” al “tutto”, designano gli aspetti essenziali delle cose: “terra”, “mondo”, “natura”, “vita”, “morte”, “fato”. Su loro batte, forte, a volta a volta l’accento. E vibra in quell’accento il disprezzo, che in altri sostantivi, con altrettanta forza, apertamente si svela: “noia”, “fango”». «Notevole è il numero dei sostantivi; notevole anche il fatto che gli aggettivi, pronomi e verbi si trasformino talora in sostantivi (l’“amaro”, il “morire”, il “tutto”). Più notevole, comunque, è che, in genere, ciascuno di quei tanti sostantivi attiri di per sé, su di sé, con l’aiuto delle scipienti pause, il pensiero. Di qui ciò che già si è notato: il gran numero delle proposizioni e la continua spezzatura dei versi. Raro avviene che la frase sintattica coincida con la frase ritmica. E quel che i francesi chiamano enjambement (e che potrebbe ben tradursi “accavallamento”) domina da un capo all’altro di questo canto, come certo in nessun altro canto leopardiano». «E pur si sa come il poeta ne usasse sempre largamente, ottenendone, specie nei suoi endecasillabi sciolti, effetti stupendi. Ma qui, nel canto “A se stesso”, l’accavallamento diventa in sua mano un mezzo d’arte potente. Proviamo a ritrascrivere il testo, lasciando in disparte per un momento le ragioni metriche, e guardando solo alle ragioni sintattiche».
Or poserai per sempre, (7) / stanco mio cor. (5)/ Perì l’inganno estremo, (7+)/ ch’eterno io mi credei. (7)/ Perì. / Ben sento, / in noi di cari inganni, (7)/ non che la speme, (5)/ il desiderio è spento. (7) / Posa per sempre. (5)/ Assai palpitasti. / Non val cosa nessuna / i moti tuoi, (7+5) 11 / né di sospiri è degna la / terra. (7) / Amaro e noia / la vita, (5) / altro mai nulla; (5) / e fango il mondo. (5) / T’acqueta omai. (5) / Dispera /l’ultima volta. (5)/ Al gener nostro il fato – non donò che il morire. (7+7)/ Omai disprezza (5) / te, / la natura, / il brutto poter / che ascoso, a comun danno impera, (7)/ e l’infinita vanità del tutto.
«Dove sono gli endecasillabi e i settenari normalmente segnati nelle stampe? Tre soli di quei sedici versi si ritrovano qui intatti: il primo, com’è naturale, e l’ultimo; poi, quasi a caso, il quarto (“ch’eterno io mi chiedei”). Ma prendono forma, erompendo da quegli stessi versi, altri versi: altri endecasillabi (“Non val cosa nessuna i moti tuoi”) e altri settenari (“il desiderio è spento”), i quali poi, quando avviene che trovino l’un l’altro, dan luogo ad alessandrini (Però l’inganno estremo / ch’eterno io mi credei”; “Al gener nostro il fato non donò che il morire”)». «E saltan fuori anche quinari (“Stanco mio cor”, “Non che la speme”, “Posa per sempre”, “Altro mai nulla”, “E fango è il mondo”, “l’acqueta omai”, “Omai dispersa”». «Inoltre nell’interno stesso di questa o di quella frase sintattica, qualche unità metrica si lascia ancora sorprendere (“Non val cosa nessuna”, “Né di sospiri è degna”, “A comun danno impera”; o anche: “I noti tuoi”, “Amaro e noia”, “L’ultima volta”, o perfino: “la terra”, “la vita”, “Dispera”). Tutto l’intricato tessuto di questo breve canto è percorso in ogni senso da ritmi or palesi or segreti». «Son ritmi punteggianti dal ritorno, insistente, a breve intervallo, di certe cupe note di fondo (“perè” – “perì”; “or poserai” – “posa” – “t’acqueta”; “per sempre” – “per sempre”; “omai” – “omai”). E son punteggiati, qua è là, dalla rima, che interviene, ove occorra, a dar vigore ai vocaboli; insolito vigore, talora, a vocaboli fin troppo consueti (“sento”, “brutto”). Né manca l’allitterazione (“speme” – “spento”), rinforzata talora dall’assonanza (“estremo” – “eterno”; “dispera” – “disprezza”, ed è da osservare che qui l’allitterazione, cioè anziché limitarsi alla lettera iniziale delle due parole, si estende addirittura a quattro lettere): onde i concetti espressi da quelle parole acquistan voce e lascian lunga eco»."

Nomi

Franca Ageno
Giacomo Leopardi
A. Monteverdi

Luoghi

Napoli

Ordinamento

Le carte sono state numerate a lapis

Scheda a cura di

Caterina Canneti

Revisione a cura di

Elisabetta Benucci