U. D. Manoscritto
Franca Brambilla Ageno
Appunti, lezione, "I messaggi formali della poesia" - Petrarca, Dante (cc. 242-253)
ante 1968
1968
12 cc.
Si riporta qui di seguito una parte degli appunti di Franca Brambilla Ageno per una lezione sui messaggi formali della poesia anche in relazione a Petrarca e Dante (cc. 242-253):
"I messaggi formali della poesia
È luogo ormai ampiamente vulgato che la tipicità del discorso poetico (Stefano Agosti, “I messaggi formali della poesia”, in «Strumenti critici», V, 1971, pp. 1-38) rispetto agli altri tipi di discorso si fonda su un diverso statuto del segno. Tale statuto potrebbe essere enunciato così: i significanti, in poesia, se da un lato rimandano pur sempre ai significati, dall’altro si costituiscono invece in entità autonome e al limite depositarie esse stesse di senso. Il significante, insomma, rinvia, oltre che al significato – che tuttavia condiziona – anche a se stesso, istituendosi come il significato di sé [“l’accento messo sul messaggio in sé” (Jakobson)]. Il fatto è che i “significati poetici” sono solo parzialmente i significanti del discorso comunicativo: in poesia, al significante ordinario si sovrappone tutta una complessa articolazione di significanti supplementari: fonetici, timbrici e ritmici, i quali sono responsabili sia di una relazione col significato diversa da quella normale, sia di un’assunzione su di sé dello statuto di quest’ultimo. In definitiva, il significante poetico è meno il termine d’un rapporto che la manifestazione d’una struttura: nella fattispecie d’una struttura formale complessa costituita dall’organizzazione degli elementi fisici del linguaggio (suoni e timbri) e dallo sfruttamento intensivo delle possibilità virtuali interne al linguaggio (la sua capacità di produrre “ritmi” e di comporre “figure”). Il primo punto comporta l’evidenziazione dell’apporto fonetico della lingua; il secondo, della prosodia e della sintassi. Ne consegue:
1) L’alterazione della semanticità normalmente inerente al rapporto significante/significato, alterazione che può comportare sia accentuazione, sia diminuzione, sia spostamenti della semanticità abitualmente concepita nel rapporto;
2) La produzione di valori di senso non semantici, ossia non razionalizzabili, da ascrivere unicamente alle strutture formali. L’Agosti si occupa inizialmente di questo secondo aspetto, e anche nei riguardi di esso, indaga solo i fenomeni di natura fonetica, timbrica e ritmica, lasciando da parte quelli relativi alla sintassi. Quest’ultima esclusione si giustifica col fatto che le strutture sintattiche, pur concorrendo, insieme col ritmo, alla produzione di messaggi formali, risultano troppo vincolate ai significati per poterne essere non indebitamente rescisse. In poesia, la sintassi, con le annesse “figure di stile” (vale qui la distinzione tra “figure di stile” e “figure di pensiero” promossa dall’antica retorica e tuttora perfettamente utilizzabile) gioca infatti un ruolo di primo piano nell’alterazione del significato dei segni, partecipa insomma più del primo punto che del secondo. In compenso l’indagine dell’Agosti si spinge sino a quelle manifestazioni in cui il messaggio trasmesso dalle forme del linguaggio, o in esse incluso e celato, sembra più di carattere inconscio, sembra cioè più il prodotto di una volontà di quest’ultimo. Naturalmente la trasmissione dei messaggi di questo tipo avviene tramite il supporto del discorso, supporto che si dà anche qualora – come negli ermetici – il contenuto razionale di esso non sia esattamente o immediatamente individuabile: la sequenza verbale comporta sempre, pur nel caso d’un estrema complessità di configurazione o d’un “ermetismo” invalicabile, un forte alone di semanticità. In una lingua non nota, gli effetti formali del discorso non sono percepiti.
D’altronde, è da notare come questi effetti formali si manifestino anche là dove non si dia che un tenuissimo supporto di semanticità o addirittura assenza locale di semanticità. Il primo caso si verifica quando la sequenza verbale è composta quasi interamente di elementi non semantici, ossia di elementi morfologici (le parti sincategorematiche del discorso). Il secondo caso si dà quando nella sequenza compaiano una o più entità lessicali non note. Un terzo caso è quello di effetti formali ricavati entro una lingua inventata dall’operatore – naturalmente sulla base delle strutture fonologiche e grammaticali d’una lingua determinata, come accade nelle tiritere popolari e in certe filastrocche infantili (glossolalie). Oltre che dal senso, il supporto indispensabile per gli effetti formali è costituito dagli schemi fono-grammaticali della lingua, che agiscono, in quanto noti, da struttura di base. Nella ricerca dell’Agosti la dimensione del messaggio formale appare rescissa dal suo riferimento al discorso: e non si tratta solo di un’ipotesi di lavoro. D’altronde, dato che per decenni e magari per secoli la critica ha continuato a considerare il significato dei testi indipendentemente dalle forme che lo condizionano, il procedimento inverso vuol costituire un utile contravveleno. Alla definizione ideologica degli autori (in cui si fondano quasi esclusivamente le storie della letteratura) si vuol contrapporre una definizione formale delle opere (su cui potrebbero fondarsi forse più utilmente le future storie dell’arte letteraria). L’Agosti procede ad analisi in genere quantitative e solo in alcuni casi ad una interpretazione dei dati. Il punto base è l’indicazione e il rilievo delle strutture del messaggio formale, sul cui “contenuto” non vengono forniti argomenti espliciti, in quanto allo stato attuale delle cose non sembrano esistere elementi sufficienti per un inquadramento esplicativo di carattere generale di questi fenomeni, oltre alla constatazione clamorosa della loro presenza. Solo quando emergono elementi tali che propongano, per così dire, da soli l’interpretazione, o si verificano prove inconfutabili, allora all’indicazione delle strutture si sovrappone l’interpretazione di esse e l’indicazione della loro funzione. L’Agosti ha preferito parlare di “messaggi formali” anziché di “messaggi secondari”, sia perché in molti casi il messaggio solitamente detto secondario assolve invece una funzione primaria, sia perché ha voluto sottolineare l’aspetto non espressivo di tale messaggio: che può essere adeguatamente chiamato secondario solo quando serve a sottolineare effetti di senso già presenti nell’enunciato, cioè si carica di espressività.
Si esamina il son. CCCXXXVIII del Petrarca:
Lasciato ài, Morte, senza sole il mondo / oscuro e freddo, Amor cieco et inerme, / Leggiadria ignuda, le bellezze inferme, / me sconsolato et a me grave pondo, / Cortesia in bando et Honestate in fondo / Dogliom’io sol , né sol ò da dolerme, / ché svelt’ài di vertute il chiaro germe: / spento il primo valor, qual fia il secondo? / Pianger l’aer e la terra e’l mar devrebbe / l’uman legnaggio, che senz’elle è quasi / senza fior prato, o senza gemma anello. / Non la conobbe il mondo mentre l’ebbe; / conobbil’io, ch’a pianger qui rimasi, / e ‘l ciel, che del mio pianto or si fa bello.
Qual è qui l’intenzione di Petrarca? Dire che è quella di esprimere la vedovanza del mondo per la scomparsa di Laura – a ciò in definitiva si riduce il significato del sonetto – equivarrebbe a tradirlo irrimediabilmente. Certo, Laura è “il primo motore”, come ebbe ad avvertire Contini; tuttavia l’impellenza tematica non è altro che la molla che fa scattare l’istanza formale: nella fattispecie, la produzione d’una complessa e vasta figura ritmico-timbrica, d’una dinamica a circuito chiuso di effetti fonetici. Basta, per la tesi, uno scrutinio delle terzine, fermo restando che l’analisi darebbe risultati affini se estesa a tutto il componimento. I rilievi mettono in evidenza anzitutto la presenza di massicci fenomeni ripetitivi, ma tutti da ascrivere correttamente alla figura dell’anafora. I sei versi presentano infatti tre gruppi di iterazioni lessicali:
pianger..; pianger…; pianto / senz’ella; senza fior; senza gemma / non la conobbe; conobbil’io
L’ultimo gruppo (‘-obbe’) consuona inoltre con le rime in ‘–ebbe’ (devrebbe : ebbe), mentre le rime in ‘–ello’ (anello : bello) consuonano internamente con ‘ella’ (senz’ella). Continuando nei rilievi d’ordine timbrico, si nota che la rima quasi : rimasi è del tipo della cosiddetta rima prolungata, infatti è, precisamente, quasi : qui rimasi. Poi ‘ella’, già consonante con ‘anello’, assuona con ‘gemma’, assonanza accentuata dalla presenza delle geminate, per cui si può stabilire la sequenza ella : gemma : anello. Consonanze più deboli sono reperibili, all’interno del gruppo strofico, fra le finali tronche dei vocaboli del v. 9 (pianger, aer, mar) e fior’ (v. 11). Quest’ultimo però rima internamente con ‘or’ dell’ultimo verso, come ‘io’ (v. 13) rima con ‘mio’ (v. 14). I sei versi presentano inoltre una massa piuttosto cospicua di allitterazioni, cioè tutte le serie di suoni identici in parole diverse, indipendentemente dalla posizione che i suoni occupano nell’ambito di tali parole, purché, in genere, si manifestino all’interno della medesima unità ritmica. Il v. 9 è costruito su una sola e ricca struttura allitterativa: pianger l’aer e la terra e’l mar. L’ultimo membro compone inoltre un’allitterazione quasi perfetta col primo membro del verso seguente, che è per di più in posizione di enjambement (la soluzione sintattica è integrata, in questo caso, da una soluzione fonetica): ‘l mar : l’[u]man. L’affinità fonica è sottolineata dall’apocope. Altre allitterazioni: mondo : mentre (v. 12) e, nel verso finale: e’l ciel che del… bello. I rilievi dimostrano che tutti gli elementi delle terzine sono vincolati foneticamente tra loro ad eccezione di due, ‘legnaggio’ e ‘prato’. Ma il primo si può far risalire a ‘leggiadria’ del v. 2, magari tramite i passaggi: pianger : germe (vv. 9 e 7), che contengono entrambi il suono /g/. Quanto a ‘prato’, esso è riconducibile sicuramente al massiccio blocco timbrico rappresentato dalle rime interne (una imperfetta) lasciato : sconsolato : honestate, ma anche, per forte affinità fonica, al successivo pianto (v. 14). Risulta così che anche questi due elementi, apparentemente liberi, sono in realtà saldati a distanza ad altri punti situati sulla totalità del componimento. La complessa figura formale qui attuata da Petrarca concorre alla realizzazione di quella “evasività semantica” in cui Contini riconosce una delle costanti della poesia petrarchesca (G. Contini, “Varianti e altra linguistica”, Torino, 1970, pp. 169-92). È chiaro che il concetto di “evasività semantica” comporta quello di “pregnanza formale”. Infatti nell’oggetto esaminato, del resto riducibile concettualmente ad un enunciato quantitativamente minimo, parte cospicua del messaggio risulta essere quella, irrazionale, promossa dall’organizzazione delle forme. Ciò può essere confermato anche per opposizione, vale a dire tramite il raffronto con alcuni passi danteschi, di cui il sonetto, nel ristretto spazio delle due terzine analizzate, attesta la presenza. Si tratta dei vv. 11, 12 e 14. Il v. 11, “Senza fior’ prato, o senza gemma anello”, anzi il secondo emistichio di questo verso, rinvia a “Parean l’occhiaie anella senza gemme” (Pg XXIII 31). Anche senza tener conto del complesso sistema formale delineato, l’emistichio petrarchesco probabilmente ricavato dall’esempio di Dante si configura esclusivamente come macchia decorativa. L’universo senza Laura è come un prato senza fiori o un anello senza pietra preziosa: il paragone agisce negativamente sia nei riguardi di quella vedovanza cosmica, cui parrebbero convenire raffronti meno squisiti, sia nei riguardi dei referenti che chiama in causa, reciprocamente compromessi nella loro evidenza e singolarità in quanto adiacenti nella stessa figura comparativa (si rientra qui nel canone dell’”evasività”). In Dante il paragone, che è isolato anche sintatticamente, tende al contrario a evidenziare al massimo l’aspetto fisico della realtà: l’effetto è impressionistico o, se si vuole, di tipo masaccesco. Del globo oculare, sprofondato nella cavità dell’occhiaia, il carattere della durezza – la funzione del paragone è quella di una resa inedita della realtà, di scavo semantico entro un determinato aspetto delle cose. Il v. 12 del sonetto, “Non la conobbe il mondo mentre l’ebbe” rimanda a Par. VI 140 “E se’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe”. Il rapporto si stabilisce in base ai seguenti elementi:
1. Identica parola in rima, preceduta dal pronome di terza persona, rispettivamente oggetto e soggetto, ma di affine sostanza fonica (all’apostrofo corrisponde infatti la sinalefe);
2. Il ricorrere in entrambi i versi del vocabolo ‘mondo’ con funzione di soggetto;
3. L’agire di tale soggetto tramite verbi semanticamente simili “conoscere”, “sapere”;
4. Il corrispondere alla proposizione negativa di una proposizione ipotetica che ha implicitamente valore negativo;
5. La scansione ritmica quasi identica (Petrarca 4, 6, 8, 10; Dante 3, 6, 8 10).
In Dante, anche in un dettato così poco emblematico, ciò che emerge è pur sempre il peso delle cose, dei fatti. Se la proposizione ipotetica rimanda a un tipo di sintassi dichiaratamente prosastico, ciò significa che in questo caso l’effetto di realtà è ottenuto adattando il ritmo all’andamento del periodo della prosa [Per quanto riguarda l’assunzione in poesia di elementi e funzioni tipici del discorso della prosa, cfr. J. Tynjanov, “Il problema del linguaggio poetico”, Milano, 1968, p. 51: “Un orientamento del verso in direzione della prosa viene a fondare l’unità e la compattezza della serie su un oggetto inconsueto e perciò non sminuisce né attenua l’essenza del verso, ma lo promuove con rinnovato vigore… Qualsiasi elemento prosastico introdotto in una serie poetica, si tramuta nel verso in un altro suo aspetto, sottolineato funzionalmente, e con questo dà subito luogo a due momenti: il momento evidenziato della costruzione – il momento del verso – e il momento di deformazione di un oggetto inconsueto”]. Di ciò che Contini definisce “andante ritmico” del verso di Petrarca, e di cui il v. 12 è un buon esempio, non v’è traccia in Dante, tutto teso com’è, sintatticamente e semanticamente, al di fuori dei propri confini, teso ad enunciare, e a dimostrare, dati di fatto. Il verso conclusivo del sonetto, “E’l ciel che del mio pianto si fa bello”, rimanda a Par. II 130 “E’l ciel cui tanti lumi fanno bello” (si noti, per inciso, la vicinanza nel poema di Dante, di questi estratti, che potrebbe suggerire l’ipotesi di un Petrarca al lavoro, ancora tutto impregnato di una recente lettura dantesca). La vicinanza, lessicale e sintattica, tra i due versi è così stretta, che ne è escluso un solo membro, ossia il gruppo ‘tanti lumi’, sostituito dal sintagma del mio pianto. Ma se si considera che quel pianto è Laura, ‘lumi’ e ‘pianto’ diventano sinonimi, riconducesi entrambi a un unico referente, “stella [-e]”. Eppure anche per un’identità così massiccia è facile indicare il divario che allontana i due campioni. In Petrarca il verso è costituito quasi interamente da una proposizione appositiva (riferita a “ciel”), ed è a struttura ritmico-sintattica chiusa, anzi è una conclusione ritmico-sintattica, e più ritmica che sintattica, dato appunto il suo carattere di apposizone di “aggiunta”. Il verso dantesco “Il ciel cui lumi fanno tanto belli” è una perifrasi per ‘il cielo stellato’ e partecipa d’un discorso enunciativo nel quale si riferisce come tale cielo recepisca e suggelli in sé l’impronta divina (o angelica):
E’l ciel cui tanti lumi fanno bello, / della mente profonda che lui volve / prende l’image e fassene suggello.
La terzina include ben quattro proposizioni incuneate l’una nell’altra mediante il gioco dei pronomi e ove ognuno dei gruppi significanti sopporta un’alta densità concettuale. Si tratta insomma d’un discorso sintatticamente complesso e concettualmente concentrato, alla cui attuazione concorre la ferrea e tuttavia articolatissima struttura metrica della terzina. Come sempre in Dante, la presenza del referente concettuale, non è eliminabile: anzi l’apparato formale non è che un espediente per evidenziarlo. Risulta così dimostrato come l’evasività di Petrarca sia ricavabile anche per opposizione, e cioè da quanto la tradizione esegetica attribuisce al “realismo” di Dante, che è in definitiva potenziamento della semanticità sia nell’ambito fattuale sia nell’ambito delle cose mentali. Non inutile ai fini del discorso è tuttavia stabilire, sia pure in via approssimativa, un “modello” di questo “realismo”. In Petrarca gli oggetti del reale non sono che materiali per una suprema operazione formale che, in ultima analisi, rappresenta il vero messaggio del testo. Dai tre esempi danteschi connessi alla dimostrazione emergono, quanto a potenziamento semantico, i seguenti dati. Per il primo specimine, la funzionalità di tutti gli elementi del paragone: rotondità delle occhiaie e rotondità dell’anello, luce dell’occhio e luce della pietra – che è connotato di preziosità per entrambi -, durezza rispettiva del supporto osseo e metallico; inoltre, eliminazione della visione “fantastica” a beneficio di quella reale, ossia della “parvenza”, sottolineata appunto dalla voce verbale (‘parean’): donde il rimando, anche nel prosieguo, a uno spettacolo complessivo di crani deturpati da una magrezza estrema, con tutto il successivo sfondo etico (i golosi) e storico (la presenza di determinati personaggi e, insomma, l’irradiazione a tutto il complesso universo della Commedia). Quanto al secondo esempio, se poeticamente l’effetto è dato per contrasto, cioè – come frequentemente in Dante – dall’adozione di una struttura sintattica prosastica (la proposizione ipotetica), cui si adatta una mensurazione ritmica fortemente e regolarmente scandita e si sovrappongono connessioni di ritmi (le rime), attuate però – sempre in concomitanza con quel contrasto – su desinenze di voci verbali; per quanto riguarda invece l’accentuazione del livello semantico, si dovrà dire che essa è, in questo caso, di esclusiva pertinenza del ritmo, non esorbita cioè da quanto questo fattore, nella sua manifestazione più grezza produce normalmente in ogni enunciato in versi, vale e dire la messa in rilievo delle unità lessicali. È questo un caso di evidenziazione minima utile comunque come riferimento. Per il terzo esempio, si è già detto della concentrazione di elementi concettuali operata entro l’ambito della terzina. In questo caso, l’evidenziazione semantica è correlativa alla soppressione di quegli spazi transitivi (anche in senso retorico) normalmente adiacenti a enunciati concettualmente complessi, nella fattispecie enunciati filosofici. La costruzione di questo “modello” antitetico ha ovviamente l’effetto di accentuare le caratteristiche attribuite al Petrarca. È possibile sorprendere una dimensione del messaggio formale che sia puramente ritmica. […]"
Franca Brambilla Ageno
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